QUI DOVE IL SASSO LUCCICA: il Monte della Madonna tra corbezzoli ed eremiti.

C’è un sentiero che parte dalla chiesa di Rovolon, si inerpica fino all’eremo di Sant’Antonio abate sul Monte della Madonna e poi si ributta, umido e scuro, nella piazza degli Alpini.
Io e Jack lo percorriamo spesso in queste giornate di autunno, quando la natura tenta di resistere ai primi geli e, nella lotta accesa, diventa più bella che mai.
I roveri rosso-oro brillano sui colli come fossero gioielli di morbide e lente matrone. Tutt’intorno brulica la vita mentre si prepara al sonno del letargo: strepitano tordi e scriccioli, raspano i cinghiali, cedono i rametti sulle foglie come matite rotolate su ammassi di giornali.
Jack è attratto da tutti i rumori e va avanti e indietro cercando scie di bestie nascoste. Conosce il mondo annusandolo; le leggi che regolano l’universo devono passare per le sue narici immerse nelle trame sotterranee di vermi o nell’aria grigia, che ora sa sempre di legna arsa e carne arrostita.
Devono esser state estenuanti le trattative che hanno trasformato l’animale più oscuro e selvaggio, il lupo, nel miglior amico dell’uomo, il cane. Jack è il risultato di questo paradossale patto per la sopravvivenza, un batuffolo peloso di tregua dopo millenni di ferocia. Eppure nella sua elica genetica sopravvive una memoria di foresta. Lo noto quando si mette a dormire: scava il pavimento come per rattoppare un giaciglio, poi gira più volte su stesso per allontanare bisciolini e sterpaglie, avvertendo i nemici che riposerà guardingo. Lo fa nonostante sia in casa al caldo, lontano da minacce antiche.

Ogni nostra decisione e ogni nostro pensiero dovrebbe prendere forma passeggiando nel bosco. In quell’equilibrio violento e silenzioso di morti e rinascite, il nostro spirito riesce a dare un senso al fango dell’esistenza. I dubbi e le paure si confondono tra le capriole azzurre che spuntano dai pungitopo. L’universo naturale, semplice e immenso, ci ricorda che siamo creature brevi e inquiete, capaci di lasciare solo qualche traccia sulla terra nera.
Ecco perché, nel Duecento, i benedettini costruirono su questo monte un monastero. Delle loro giornate fra orti e preghiere rimangono i ruderi sui quali fu costruita la minuscola chiesa appoggiata all’alto campanile. Erano devoti a Sant’Antonio abate, eremita vissuto in Egitto.
La vocazione giunse quando gli apparse in sogno un monaco che gli disegnò un futuro di solitudine e contemplazione. Ma i demoni della tentazione non lo abbandonavano, così si chiuse in una tomba di roccia, nutrendosi di tozzi di pane calati da uomini di buon cuore. Dopo vent’anni, purificato dalle incertezze, uscì dal ventre buio per guarire i sofferenti nel nome di Dio.
Oggi Sant’Antonio Abate è il protettore degli allevatori e degli animali domestici. Viene rappresentato con il “porseeto” che i suoi seguaci erano soliti donare agli affamati.
Ogni seconda domenica di gennaio, la comunità di Teolo lo festeggia presso il santuario, cucinando salsicce e bevendo Merlot. Nella caciara rivive la parabola dell’anacoreta; i colli diventano piramidi dai fianchi appesantiti e la nebbia una tempesta di sabbia che non si può toccare.

Strano è il destino degli eremiti, capovolto come la storia del lupo e del cane. Per essere davvero soli lo devono dire a tutti, per raggiungere il segreto fine hanno bisogno di più testimoni possibili. D’altronde la dimensione collettiva dell’ascesi spirituale è qualcosa che accomuna tutte le confessioni.
Sull’altare posto davanti alla grotta del santuario, la tensione all’esposizione dei moti intimi è raccolta in un quaderno dove i pellegrini scrivono invocazioni e ringraziamenti. Qualcuno chiede protezione per i cari e gli amici oppure prega per le persone che non ci sono più. Quando scorgo queste tracce di vite sconosciute che mi ronzano attorno, mi chiedo come mai i i santi non riescano a leggerci l’anima risparmiandoci la fatica di riempire fogli arricciati dall’umidità alla mercé di sconosciuti. Di certo un miracolo si compie ogni volta che la penna messa a disposizione dei fedeli rimane al suo posto, senza che nessuno si azzardi ad intascarla.

La prima e l’ultima eremita sono state due donne. All’inizio del IX secolo, la ricca vedova Felicita decise di spogliarsi di ogni bene e raggiunse la grotta del Monte del Madonna, dove ancora zampilla una delle fonti più alte dei colli euganei. Mille anni dopo, Claudia, una ragazza piemontese ha seguito le sue orme. Ispirata dagli Hare Krisha conosciuti in India, nel 2003, per più di un anno, ha vissuto nel santuario, nutrendosi prevalentemente dei frutti del bosco.
In effetti l’ambiente attorno è un mercato a cielo aperto. Nel tardo autunno qualche impavido fico d’India nano rimane aggrappato ai sassi per godersi gli ultimi raggi. Lungo il tratto che corre dall’uscita del bosco fino alla radura del monastero, quasi per magia si viene catapultati in uno spiazzo assolato identico ai monti mediterranei. La roccia bianca è coperta dal tappeto di frutti rossi importati nel Cinquecento dall’America, allora spacciata per l’India. I fichi crescono in orizzontale come tentacoli gonfi e spinosi, per raggrinzire pian piano quando l’aria comincia a gelare.
Dove la vegetazione rinfittisce, il sentiero è lastricato di corbezzoli maturi. I rami della pianta sono utili per scacciare le strighe, gli uccellacci notturni avidi del sangue di fanciulli. Per il rosso dei frutti, il verde intenso delle foglie e il bianco dei fiori, durante il Risorgimento il corbezzolo divenne il simbolo dell’unità d’Italia. Ma oltre ai colori, questo arbusto celebra l’onor patrio in quanto, tenace ed ostinato, butta i frutti quando il mondo intorno si trasforma in un deserto freddo. “Ricominci eterno, il tuo maggio è nella bruma”, scrisse Pascoli nell’ode che gli dedicò.
Il nome scientifico del corbezzolo è “arbutus unedo”, dove “un-edo” sta per “ne mangio uno solo”. Lo scelse Plinio il Vecchio che, contrariamente al gusto comune, trovava i frutti aspri e insipidi; o forse furono gli effetti indesiderati di una scorpacciata ad ispirargli un epiteto che ci mettesse in guardia, come fanno i bugiardini delle medicine.

Usciti dal luogo sacro, ci si arrampica sul “salto della volpe”, un cumulo di rocce da cui si scorge uno dei panorami più incredibili dei colli euganei. Davanti agli occhi, oltre il Monte Altore, compare la gobba solitaria del Lozzo, le costole aguzze del Pirio e poi il Venda, che sembra un panettone schiacciato. Ora che le giornate hanno il fiato corto, mentre si scende verso il passo Fiorine e si ripiglia l’ultimo chilometro di bosco, il sipario rosa delle nuvole a metà pomeriggio inizia a calare. Se la giornata è limpida si possono scorgere, lontane, le meringhe delle prealpi. È un incanto che non stanca mai, e ogni volta mi chiedo se sia stata inventata prima la natura o l’idea di meraviglia.
Jack corre svelto per la discesa, poi torna a vedere se ci sono ancora. La sua gioia è garantita e incontenibile; la mia invece è sospesa, perché noi umani siamo imbattibili nel complicare le cose.
Trattengo negli occhi quello che ho visto, lo metto in un anfratto della mente e lo ritiro fuori di notte, quando penso che mentre il mondo artificiale si trascina caotico, un corbezzolo rotola sul grugno di un cinghiale, il tasso comincia la sua caccia, secchiate di luna innaffiano i fichi d’India e Jack scava un letto di sopravvivenza millenarie: ora non serve, ma domani, chissà.

SINDROME POLESINE

SINDROME POLESINE

Bisognerebbe provare quella sensazione. Fermare la macchina di notte, nella nebbia, sui fianchi di una strada dissestata di cui non si fede la fine. Scendere, lasciare su le chiavi, chi mai potrà arrivare. Sperimentare, senza che nessuno lo sappia, una strana prova di vuoto. Poi porsi la domanda che ha tormentato la fisica per millenni: “perché esiste qualcosa anziché il nulla?”.

È quello che ti chiedi quando percorri in silenzio la spina dorsale del Polesine. Ci sono chilometri di niente, perché anche il niente a suo modo c’è. E cosa potrebbe esserci, d’altro canto? Le scritte “vendesi” sbiadiscono sulle persiane rattoppate di alberghi nati tristi, nelle barbe arrugginite dei leoni sui cancelli e tra gli ammassi ingombranti dei zuccherifici abbandonati. Nella nebbia è tutto un vociare di aria che entra ed esce dalla finestre rotte. Chissà cosa rimane, lì dentro, del lavoro di centinaia di uomini; se resta il DNA rattrappito nel sudore di chi ha cresciuto famiglie con le barbabietole, perché strana è la natura quando in questa terra scura riesce a far nascere un frutto dolce.
Nelle notti di nebbia si respira acqua. L’acqua è dappertutto, anche nell’aria. L’alba dell’inverno, ma anche dell’estate, si sveglia col fiato corto. È una landa senza salite, il Polesine, ma lo stesso ci si affanna. Ci sono mattine bellissime, tutte rosa, e rosa si fa il brodo delle paludi che interrompono lo scorrere dei corsi di asfalto e polvere. Un canneto come tappeto di benvenuto e poi sconfinano i bacini, gli scoli, le valli senza onde. Quando il ghiaccio vince la nebbia e il sole vince su tutto, le giornate si fanno di vetro. Il mondo sembra nascere ad ogni aurora, ancora tutto pulito, ancora tutto giusto. E lì le dimensioni si confondo in giochi di specchi d’acqua, dove non esiste un su e un giù: il volo caciarone dei gabbiani è nel cielo ma anche nelle viscere e i salici brillano d’argento verso le stelle e sull’alveo lento si bagnano. Vi scorrono tronchi, poi fango, poi reti abbandonate, poi guarda, oh! Una ciabatta, una sola, che non sai come possa esser finita dentro il fiume, forse per colpa di un piede distratto, rincasato scalzo.

Il Polesine è crudele. Tutto quello che gli prendi, lo paghi due volte. La prima con la fatica di vivere in un universo di durezza progettato per non aver uomini fra i piedi. La seconda per riavere indietro ciò che ti toglie. Costruisci argini portando carriole di terra, invecchiando nei solchi dei campi, scrivendo destini di stenti sui calli dei palmi. Poi una notte lo scirocco soffia sul mare, ingrossa il fiume che rompe le roccaforti di sabbia e butta giù tutto. Avveleni le zolle per trarne il massimo profitto e allora le nuvole spariscono, le zolle diventano marmo bianco e, nella terra d’acqua, per contrappasso, le piante crepano di sete. Anche le specie marine si ribellano quando chiedi loro un sacrificio non tollerato dalla legge della catena alimentare: un esercito di nuovi predatori combatte la pesca sregolata, mangiando quello che vorremmo mangiare noi; oppure silenziosi microrganismi – coordinati da una strategia di correnti – sballano l’ecosistema e riassestano i rapporti di forza che l’uomo crede di domare.
Si punta allora sul turismo, senza sapere bene dove parare. I giovani vogliono la movida, stufi della piana noia di questi posti, ma non ha senso diventare la copia malriuscita di Rimini. Gli stranieri vogliono un’oasi di pace in cui contemplare i viaggi intercontinentali dei fratini, ma non ci vengono se la torretta del birdwatching cresce vicina allo strobo di una disco. E così, come un padre senza talento, il turismo finisce per non accontentare nessuno. Anzi, diventa una caricatura di se stesso quando nei sentieri vaporosi delle pinete, tra i cartelli che raccontano storie di rospi e arbusti, inciampi su cicche e fazzolettini, resti di amori pieni di fretta.
Il fatto è che i polesani non amano il Polesine. Quando da bambino ti portano in giro per i musei della bonifica e dei mestieri perduti, senti che non puoi contemplare una vita bestemmiata dai tuoi nonni, dai tuoi padri, patita da donne cresciute all’ombra delle preghiere, chine nell’umida prigione delle risaie, tra canti scordati, costrette a coltivare radicchio e non rose, che mica si possono mettere sul piatto.
Noi siamo poco inclini a cedere alle sabbie mobili della retorica. Ci piace costruirci il condominio nella desolazione di Santa Giulia, comprarci il SUV per sfrecciare vicino alle ciclabili regalate da fondi europei e lasciate a soffocare tra erbe cattive, appiccicarci di crema accalcati su pochi metri di spiaggia lasciando chilometri di battigia solitari. Ci piace dire che, appena potremo, ce ne andremo via. Quale fortuna cercare qui, in questo pozzo dove raccogli desideri se poi ti scivolano dalle mani, tornado nel buio da cui sono nati?
Sarà che l’esperimento del vuoto in noi si riempie di rabbia. Camminiamo su un suolo che cede, nati sotto il livello del mare. Un cuscinetto scavato dall’estrazione esagerata del metano, un’irrimediabile golena in cui ogni giorno tutto quello che ci siamo conquistati potrebbe esserci strappato via. È un presagio che non ti abbandona mai, si infila nelle valige dei tuoi addii verso la city, il lavoro, il tailleur, il futuro. Ti senti sempre un po’ da meno, perché nessun riscatto ti toglie tutto quel lezzo di mitili abbandonati all’afa, l’odore di una fine che non ha mai conosciuto la gloria di una possibilità. Mi sono sempre chiesta perché tanti dei nostri vecchi non se ne sono andati via, scegliendo di rimanere, truci e incazzati verso un’esistenza subita e mai scelta. Quasi se la loro infelicità fosse una pena da scontare per le colpe di altri, ma di chi, poi? Della forza delle maree, della sabbia, della nebbia? È un vizio tutto umano riempire il vuoto di qualcosa, fosse anche solo il senso acuto di un’ingiustizia di cui non si cerca nemmeno l’autore.
Eppure esiste un momento in cui quest’ansia si placa e zoppica una pace antica. Avviene poco prima del tramonto, quando gli sciami accaldati di zanzare sono ancora spossati e la luce, che qui scende retta come un filo a piombo senza concedere il lusso dell’ombra, si fa meno violenta. È l’ora d’oro, l’ora in cui le fascine attorcigliate ai piedi dei pioppi prendono il coloro del fuoco senza ardere. Il volo degli stormi si fa muto e, nei giorni più fortunati, sulle pozze arrossiscono in bilico i fenicotteri. Il mare mormora, le strade sanno di sale e fieno. Iniziano ad accendersi le finestre, si pensa a cosa cucinare per cena. Si coltiva, senza riuscire a dirlo, una maledetta speranza nel domani e la si tiene a galla, di notte, per non farla affogare troppo presto, che qui è sempre un attimo.
Capisci che non è del tutto assurdo disegnare una geografia dell’anima: alla fine sei sempre il posto che abiti o che hai abitato, per quanto lo fuggirai. C’è una bellezza anche nell’inospitalità ed è la lotta inquieta di riuscire a restare dove non ti sei mai sentito voluto. Meglio rimanerci, magari arrabbiato, ma mai davvero sconfitto.

MORGAN E IL CORONAVIRUS: estetica di una generazione sPaesata.

Se negli anni Novanta qualcuno ci avesse detto che Morgan sarebbe andato dalla D’Urso blaterando “Bugo ha il coronavirus”, l’avremmo preso per matto.
Invece è successo. È accaduto che l’icona dandy della nostra adolescenza sia diventata una macchietta nazionalpopolare, intrappolato nei tentacoli trash di una che guadagna milioni rintracciando la sorella incazzata o la madre che prepara strepitose meringhe o ancora l’ex fidanzata finita in letti sbagliati, sbranata da un voyerismo così volgare da renderla quasi vittima.
Morgan, autore di “La crisi”, “Altrove”, “Amore assurdo” (che ancora mi fa tremare) non rappresenta solo un professionista finito. È l’epilogo, violento e glitterato, di una generazione spaesata. Ricordo bene i suoi coetanei da giovani: li guardavo incantata mentre ondeggiavano sul Tagadà della sagra di paese al ritmo di “Tranqi Funky”, con le camicie da boscaiolo grunge e l’ennesimo revival dei pantaloni a zampa.
Cos’è capitato a questa generazione? I giudizi sulla massa sono spesso irritanti e inutili, eppure in ogni transizione generazionale si riconosce un’onda più potente di altre. Morgan ha surfato su questo cavallone e poi ne è stato travolto, annaspando fino alla deriva di Canale 5, dello sfratto esecutivo in cui l’hanno filmato mentre – sudato fin nelle occhiaie – declamava sonetti shakespeariani; senza parlare della gaffe sull’uso di droghe e la revenge parolaia contro Bugo. Sono tutte mosse che da un lato hanno sfiancato la sua già traballante dignità e dall’altro l’hanno trasformato in uno strambo re del trash intellettuale. Morgan è stato un esperimento nuovo ma deludente nella sua prevedibile ovvietà. La sua musica avanguardistica si è arrestata alle soglie del futuro, come una rivoluzione limacciosa, un’arte impantanata tra l’ansia di esser venduta e la presunzione di non farsi comprendere. In fondo sapevamo che la sua carriera sarebbe finita così: o si ritirava o diventava come tutti gli altri.
L’estetica decadente della rabbia di Morgan barattata per audience ha in sé un’inquietudine capace di rattristarmi pur sapendo che il casino che ha raccolto è stato consapevolmente seminato. Forse è perché in lui rivedo i miei sogni crollati, diventati macerie di incubi e frustrazioni. Mi spiego. L’intensa necessità di esprimersi ha portato la mia generazione a cercare qualcuno che ci ascoltasse negli anfratti comodi della rete e dei social. Ormai puoi essere seguito pure se non hai nulla da dire, e ti chiedi se vale davvero la pena faticare per esser pieno quando un vuoto ben formattato trova un successo maggiore. Morgan è caduto nel baratro che ha sempre temuto, ovvero la banalità; ma quando è scivolato non si è rotto le ossa cercando poi di riabilitarsi come avrebbe meritato: ha capito di essere sulla cima del successo. In questo mondo nuovo del Duemila resisti solo se prendi gli anni Novanta e li rovesci a testa in giù.
Noi, ragazzi-paradosso degli Ottanta, siamo nati nell’agio e cresciuti nello sconforto dei lavori precari; siamo i più istruiti ma anche quelli della meritocrazia buttata nel cesso, inventori di un’antipolitica corrotta quanto la politica, tanto da aver lo stomaco di rimpiangere Bettino e la pioggia di monetine. Se ci lamentiamo qualcuno ci rammenterà che non abbiamo mai lottato, ed è vero. Non abbiamo patito la fame ma ora non siamo in grado di comprarci una casa; viviamo della rendita di diritti non conquistati, alcuni dei quali – l’emancipazione femminile, la libertà d’opinione, le frontiere aperte – sono così scontati da farci quai schifo. Se vogliamo gridare il nostro disagio non verranno più i Nirvana in nostro aiuto, il metal sporco o l’indie raffinato degli Afterhours: al massimo posteremo Bukowski in instagram, sotto un nostro bel selfie, non troppo triste altrimenti non se lo fila nessuno.
Noi abbiamo assistito al passaggio della tecnologia e ora teniamo in tasca un mondo, siamo svegli e connessi. Eppure la rivoluzione dei contatti c’è passata davanti come un treno su cui non siamo mai riusciti a salire. Quelli come me sanno bene cos’è la provincia, sedotti dal suo mito e costretti a fuggirle, tappandosi le orecchie per non sentirne il richiamo irresistibile, come Ulisse con le sirene. Abbiamo fatto di tutto per scrollarcela di dosso, e ora ce la ritroviamo seduta sugli scranni del Parlamento, tradotta in canzonette e libri in cui non ci riconosciamo più.
Siamo gli sPaesati con la “P” maiuscola, privi di un movimento che ci dia senso, perché la nostra stessa esistenza fonda le basi in una permanente contraddizione. Ed è così che un virus finisce per farci sentire più vivi che mai, perché infetti lo siamo da sempre. Abbiamo finalmente la scusa di risparmiare le cene del sabato sera, lavoriamo meno di quello che ci è stato misericordiosamente concesso e ci chiudiamo in casa indossando la maglia slavata degli Iron Maiden mentre sputiamo un po’ di odio in rete, come sto facendo io, ora.

L’ULTIMO ACCESSO

I

La cena della sera prima gli era rimasta sullo stomaco. Nel cantiere della cava c’era un unico bagno chimico, un Sebac blu che svettava tra la polvere e le voragini aperte dagli escavatori. La luce obliqua del mattino tentava di scalfire un ammasso di nubi sporche e sospese. Quel giorno il cielo sembrava di marmo. Con gli occhi semichiusi a causa della notte in bianco e per la luce insolente come un neon naturale, si sistemava il caschetto e tentava di aprire le carte del progetto. Ogni volta che spiegava il rotolo, un soffio di vento freddo venuto da chissà dove rovesciava le pagine e gli provocava una fitta al basso ventre. Bestemmiò. “Non stai bene oggi?” gli chiese il collega. “Non molto”, rispose, “ma entro stasera dobbiamo concludere”. Poi gli raccontò della cena dai suoceri, dei piatti troppo conditi, della pressione subita per portare a termine quel progetto incancrenito. Gli squillò il telefono. Era lei, come al solito. Rispose frettolosamente, le aveva detto di non disturbarlo durante il lavoro. Interruppe subito la chiamata. Irritato dal vento, da quella voce da usignolo ferito e da uno spasmo intestinale che lo piegava in due, lanciò il telefono sulla terra rosa.

In quel momento il cielo si oscurò. Sul palco avorio di una giornata che preannunciava pioggia, calò il sipario. Riuscì ad udire un tonfo e un grido: forse era il suo. La guancia toccò i sassolini della cava, simili a minuscole formiche pronte a mordergli la faccia. Il casco giallo, balzato a un metro dalla sua testa, sembrava un sole caduto. Temeva di aver bagnato i pantaloni. Probabilmente era morto oppure era arrivata la fine del mondo. Ricordò la prima volta in cui sentì parlare dell’Apocalisse. Aveva nove anni. La catechista, con la sadica foga di un drago educato, raccontò di un trono in cui sedeva un dio di pietra. Poi la narrazione fu un avvicendarsi di agnelli e leoni, cavalieri alati, terremoti, stelle gettate sulle terra come i coriandoli a Carnevale. Forse la storia sghemba e violenta dell’umanità era giunta al capolinea. Gli venne quasi da ridere. Pensa te, si disse, crepare cullato dall’immagine di una signora bigotta e appesantita che spaventa i ragazzini con la favola di una vendetta divina.

Gli occhi erano l’unica parte del corpo che riusciva ancora a muovere. Steso come un verme, guardava un esercito di scarpe antinfortunistiche arrivare in suo soccorso. Decine di punte di ferro alzavano vortici rosa e sentiva gridare il suo nome dalle viscere della cava. Lasciò ruzzolare le palpebre tentando di proteggersi dalla polvere e dal dolore. Provava in tutti i modi a scacciare la visione della catechista che sputava la descrizione dell’Apocalisse, mentre il petto gonfio lasciava scintillare un Cristo dorato. Era certo di essere morto.

II

Quando era in turno, Lea teneva il telefono spento. Mentre riassestava la terapia contando pasticche e gocce, udì il passo pesante della caposala. Gli zoccoli blu si arrestarono sulla porta della medicheria. Il volto della caposala era bianco, pareva avesse pianto.  “Tuo marito”, disse quasi senza fiato, “sta arrivando in codice rosso. Si è staccato un pezzo di roccia giù alla cava, non so come sia successo. Sono riusciti a tirarlo fuori, ma ci è voluto molto tempo. Non ha mai ripreso conoscenza”. Con una mossa istintiva, Lea chiuse le boccette e iniziò a sistemarle nell’armadio. La caposala la prese per un braccio. “Tuo marito, Lea, non sappiamo nemmeno se ci arriva fino a qua, hai capito?”. Fece un cenno col capo, ma le parole non le uscivano. Era come se tutto ciò non stesse succedendo a lei. Venne accompagnata sul tetto dell’ospedale, stava atterrando l’elisoccorso. Tirava un vento freddissimo. Pensò a lui, al suo corpo appiattito sotto il marmo liscio, a cosa aveva sentito. Il sole impallidì dietro le ali di un calabrone d’acciaio che rombava sbuffando fumo. Lì dentro c’era la persona più importante della sua vita.

Dopo ore di sala operatoria, le condizioni erano ancora disperate. Il tempo era un susseguirsi di caffè e conforti, nervose passeggiate di pochi metri, attese interrotte da flash di presagi. “Rimani a casa se stai poco bene”, gli aveva detto quella mattina, “tanto oggi danno pioggia, dovresti sospendere comunque”. Invece aveva ingoiato una pastiglia ed era corso via. Si guardò le mani sporche del talco dei guanti e vide avvicinarsi un paio di scarpe verdi. “È vivo, Lea” le disse il chirurgo “ma è ancora grave”. Tentò di illustrale le operazioni eseguite, ma lei perdeva il filo. La accompagnò fino al letto, la appoggiò alla poltrona, le strinse la spalla e le disse di chiamare per qualsiasi necessità. Poco dopo arrivò Gino, aveva ancora addosso la tuta da cantiere. La abbracciò e, senza riuscire a dire nulla, le mise in mano il cellulare impolverato del marito. Lei lo appoggiò sul comodino e finalmente riuscì a respirare: fino a quel momento l’aria le si bloccava in gola, come se uno stantuffo di disperazione impedisse al fiato di rimanere a galla.

Ora iniziava il travaglio dei bollettini medici e l’osservazione inquieta del corpo di lui, nell’attesa di un tremore, un lamento, una palpebra socchiusa. Pensò che doveva iniziare a chiamare familiari e amici. Prese il telefono dalla borsa: ci sarebbero volute ore per rispondere a tutti. Senza un valido motivo, controllò l’ultimo accesso del marito: ore 11.54, un minuto prima della tragedia. Lui era arrivato frantumato e irriconoscibile, mentre il suo cellulare riportava solo qualche graffio. Lo osservò come fosse un ospite indesiderato, mentre il bip dei monitor teneva la scena accesa. Notò sfondo dello schermo, una foto di loro due durante una gita a Verona. Che strano, lui non era tipo per queste cose. Una lacrima bagnò l’icona di whatsapp. Ci appoggiò il pollice, c’erano quindici messaggi non letti. Dieci erano foto spedite sul gruppo del cantiere:  il pezzo di marmo caduto, l’elicottero che arrivava, il caschetto ruzzolato sulla terra rosa. Le venne da vomitare. Poi lo sguardo cadde sui cinque messaggi non letti di un certa Agata. Erano stati scritti tutti quel giorno: “chiamami”, “chiamami”, “chiamami”, “chiamami!!!”, “chiamami, cazzo”. Forse era una collega della ditta, ma il primo messaggio era arrivato alle 9 e l’ultimo alle 13, non poteva essere all’oscuro dell’accaduto. Agata l’aveva pure chiamato alle 11 e 52, per circa 5 secondi. Non capiva. Fu distratta dal rumore dei passi della caposala che le portò l’ennesimo caffè. “Ci ho aggiunto qualche goccina” bisbigliò “così almeno riesci a dormire”. Avvicinando la bocca all’orecchio di Lea, notò la foto di lei e il marito a Verona. “Che belli!”, esclamò commossa, “vedrai che si aggiusta tutto”.

III

Quel giorno Agata continuava a guardare il telefono. Durante la riunione, il capo le lanciava continue occhiate. “Se hai qualche chiamata urgente da fare, puoi uscire un attimo” le urlò mentre i colleghi sghignazzavano. “Nulla di urgente”, rispose. L’ultimo accesso era stato alle 11.54, e ora erano le 15.30. Forse lui era davvero preso dal lavoro, sapeva che doveva concludere un affare importante, si era pure scusato per averla trascurata durante la settimana. I turni della moglie duravano dodici ore, quindi non poteva essere con lei. Due giorni prima aveva notato lo sfondo del suo telefono, la foto di loro due sorridentei davanti all’arena di Verona. “Guardala, la coppia felice” aveva commentato rabbiosa, ma lui non aveva risposto. Ogni volta che gli sbatteva sul muso la copla della sua infedeltà, lui la guardava con un’oscura traccia di compassione. Sembrava dirle “tu non puoi capire”. Eppure lei capiva eccome.

Ne aveva sentite di storie simili, diverse amiche erano cadute nelle trappole dei triangoli infelici e ne erano uscite con l’implacabile certezza che tutti gli uomini si comportassero da codardi egoisti. Nonostante gli attori e le attrici dei tradimenti fossero creature molto diverse tra loro, il copione era lo stesso. Le infedeltà si nutrivano delle medesime logiche: capitava di confondere la placida sicurezza coniugale con la noia, la profonda conoscenza dell’altro con un sentore di trascuratezza e, soprattutto, imperava l’idea che la felicità fosse sempre in un altrove proibito. I triangoli erano relazioni in cui l’autenticità delle passioni scoloriva se immersa nella miseria delle azioni bugiarde e dei vincoli insudiciati. Traditore e tradito finivano per dare il peggio di loro, provando per l’amore una certa pena. Le menti più accese erano consapevoli che l’innesco dell’infedeltà poco c’entrava con un problema di coppia: si trattava di una pulsione vitale, amara e antica; era l’istinto di sopravvivenza avvertito quando sentiamo il tempo scivolarci dalle dita. Solitamente quei disastri capitavano alla soglia dei quarant’anni.

Lui non le aveva promesso nulla, ma lei ci sperava comunque. Alla moglie aveva giurato amore eterno, eppure la tradiva, quindi tutto era ancora possibile. Non si rischia di finire un matrimonio per una storiella da poco, e in fondo lui era un uomo serio, sapeva cosa sarebbe stato giusto fare. L’opinione sul suo amante rifletteva l’altalena di un’onda: era impetuosa quando realizzava di avere a che fare con un bugiardo e diventava calma quando si ritirava nel mare dei baci e delle carezze, rese sincere da un’ingiusta clandestinità. Se la verità è qualcosa da scoprire, significa che il vero vive nei nascondigli, sotto spoglie mute. Si calmò e decise che per la prossima ora non avrebbe più controllato l’ultimo accesso e l’avrebbe lasciato in pace. Finalmente la riunione era finita. Andò a prendere un caffè alle macchinette, la giornata era ancora lunga. Mentre cercava le monete, i colleghi parlavano di un incidente accaduto alla cava. Dicevano che una lastra di marmo aveva investito il capocantiere.

IV

Si svegliò di soprassalto, immaginò di sentirlo urlare. Aveva dormito circa tre ore e aveva male ad una spalla. La poltrona era scomoda, si era rovesciato il bicchiere di caffè e lui sembrava un bambino malconcio che non dava alcun segno di miglioramento. Riprese in mano il suo telefono. Non l’aveva mai controllato fino ad ora e nel farlo provò una certa vergogna. Essere sposati non ci toglie il diritto di conservare una sfera segreta, pensò. Forse è proprio l’esistenza di angoli inviolati a garantire la stabilità di un rapporto, come le fondamenta di una casa, che anche se non si vedono ne reggono tutto il peso. Ma un segreto è diverso da una bugia, e il limite della decenza è qualcosa di inappuntabile.

Scorrendo tutte le applicazioni del cellulare, in pochi minuti scoprì che l’uomo con cui viveva da sette anni era uno sconosciuto. Lui spulciava con assidua regolarità il profilo delle sue ex, talvolta chattava con qualcuna di loro. Comprava su amazon libri sull’autostima, nonostante li avesse sempre reputati delle stronzate new age. Utilizzava frequentemente instagram postando foto con frasi rubate a filosofi e poeti: erano selfie filtrati, imbarazzanti nella loro ovvia irrealtà. La sera prima aveva cercato in rete un prodotto anticalvizie. L’ultima mail inviata era la richiesta di un preventivo ad un gioielliere specializzato in incisioni. Per accedere all’applicazione del conto corrente doveva inserire una password: provò con la data di nascita di lui e poi quella di lei, ma non funzionò. Meglio così, si disse. Quel piccolo aggeggio elettronico sapeva tutto di lui e lei invece non sapeva nulla. L’angolo inviolato destinato a tenere unita la loro relazione era in realtà una voragine in cui loro non si sarebbero mai più ritrovati.

La sua mente era un fiume in piena. La ragione annaspava nella tempesta d’odio che le montava dalle viscere. Era una situazione assurda: l’uomo che era la causa della sua furia versava in uno stato di totale incoscienza, stava lottando tra la vita e la morte e lei, la moglie, non era più convinta di tifare per la prima. Eppure anche andarsene così, nella pacifica convinzione di averla lasciata amata e felice, sarebbe stato un epilogo immeritato. Aprì di nuovo tutte le app, riguardò le foto, lesse i messaggi. Temeva e sperava di trovare qualcosa di peggio. Stava realizzando che era solo l’inizio della rovina: il tunnel dei pensieri opposti e contrastanti era troppo stretto per starci dentro senza impazzire. Sentiva le tempie infuocarsi come stritolate da una pressa rovente, quando nella penombra della stanza si affacciarono due tacchi frettolosi. “Tu devi essere Agata”, disse alla donna in controluce. “Vieni, accomodati pure”.

PER IL COMPLEANNO REGALAMI IL TEST DEL DNA: My Heritage, il social network dei geni.

IL PASSATO DEL FUTURO: perché cerchiamo i nostri avi?

Al crepuscolo di una vita leggendaria, pure lei cedette alla seduzione della memoria. Voleva capire da dove giungeva il fascino sfrontato, l’inguaribile rabbia, l’amore per le parole. Tra gli appunti della ricerca vi è addirittura la supplica di uno studioso di Boston, contattato per la ricostruzione genealogica: si acconti di ciò che ho trovato, le scrive, non posso sapere come si chiamava la nave che faceva la spola tra Plyamouth e Livorno.

Consumata dall’alieno (così chiamava il cancro), rintanata in un appartamento a New York come orsa in un perenne inverno, Oriana Fallaci dedicò più di 800 pagine alla ricostruzione delle origini della sua famiglia. “Un cappello pieno di ciliegie” è la monumentale opera postuma in cui viaggia nel tempo e ricostruisce le sue origine dal 1700. Nel momento la clessidra dell’esistenza colava rapida, cercò nel passato “le risposte con le quale sarebbe giusto morire. Perché fossi nata, perché fossi vissuta, e chi o che cosa avesse plasmato il mosaico che da un lontano giorno d’estate costituiva il mio Io”.

Ora la genealogia va di moda e non è più il vezzo di nobili presi dal convulso desiderio di dimostrare la purezza del loro ramo. La tendenza è frutto della grande disponibilità delle risorse web (qui alcune indicazioni utili per rivolgersi agli archivi) e dall’utilizzo di social network con i quali cercare persone lontanissime. Già qualche anno fa, spendendo un centinaio di euro, potevi comprare una pergamena attestanti le gloriose origini del tuo cognome e lo stemma araldico miniato. Perfino i miei avi sono risultati gente illustri, nonostante il mio cognome “Marangon” in dialetto veneto significhi “falegname”.

Forse queste ricerche truffaldine ci hanno costretti a raffinare la curiosità della ricerca, pretendendo prove attendibili e maggior serietà. È comparso addirittura il “genealogical traveller”, un ricercatore itinerante che insegue la storia di una famiglia nei luoghi in cui si è sviluppata. Si tratta di una pratica destinata ad obbligare gli enti pubblici a tenere un po’ più in ordine i preziosi archivi fino ad ora poco frequentati, il che è un’ottima cosa.

Negli Stati Uniti si è già qualche passo avanti. Nel 2003 un team israeliano di appassionati di genealogia fonda il social network  “My Heritage” e nel 2008 riceve un finanziamento di 15 milioni di dollari che gli permette di acquisire “Kindo”, una piattaforma per la ricostruzione di alberi genealogici europea. Il servizio principale è la creazione di profili online di famiglia in cui condividere foto e video, annotare ricorrenze e taggare i volti dei parenti che compaiono nelle foto. Si può addirittura confrontare il proprio volto con quelli delle celebrità o capire se siamo più simili a mamma o papà. Il motore di ricerca “metasearche”, che acquisisce il database di My Heritage, può interrogarne altri 1526, linkando così più parentele possibili.

REGALAMI IL TEST DEL DNA

La vera novità, però, è la possibilità di far analizzare il proprio DNA rivelando informazioni sulla storia familiare e sulle origini genetiche. “Il corredo – si legge nel sito italiano – consiste in un tampone buccale di semplice uso (non sono richiesti sangue o saliva) e occorrono solo 3 minuti per utilizzarlo. Successivamente, spedisci per posta il campione di laboratorio ed entro 3-4 settimane sarai invitato a consultare i tuoi risulati on-line”.

I risultati comprendono una “stima di etnia”, ovvero una ripartizione percentuale dell’ascendenza che indica le origini dei tuoi antenati in base a 42 etnie, che comprendono la giapponese, l’italiana, l’ebraica, la balcanica e molte altre ancora. La percentuale superiore al 4% indica un’alta probabilità che un nostro discendente fosse di quella etnia. Potremmo così scoprire di aver avuto trisavoli albanesi o scandinavi, africani o orientali che nel corso dei secoli si sono spostati nel mondo lasciando traccia nel codice del nostro patrimonio cellulare. Occorre dire che l’indagine è comunque abbozzata: per le conferme è necessaria una ricerca storico-archivista complessa e laboriosa.

Ad oggi My Heritage conta circa 30 milioni di utenti. Solo nel 2017 ha venduto un milione di kit, incassando 133 milioni di dollari. Gli utenti in Italia sono 1,4 milioni. Per chi non volesse addentrarsi nella scoperta del proprio codice genetico, il sito offre la possibilità di costruire il proprio albero genealogico scaricando il software “Family Tree Builder”. Inserendo compleanni, decessi e matrimoni dei propri parenti, i luoghi in cui hanno vissuto e le loro passioni, il programma crea grafici che evidenziano probabili discendenti confrontando gli utenti del database e chiedendo poi una conferma sulla corrispondenza.

Il DNA fu una scoperta del 1953 di Watson e Crick, che nel 1962 vinsero il premio Nobel. Solo nel 1984 si comprese la possibilità di individuare una persona a partire dalle caratteristiche irripetibili dai geni lasciati da tracce di saliva, briciole di pelle, capelli caduti. Nel 1988, per la prima volta, la prova del DNA venne usato per incriminare un omicida. In seguito ha aiutato a risolvere enigmi storici, scoprendo che il presidente Thomas Jefferson era il padre dei figli della sua schiava o che la donna di Hitler, Eva Braun, in un capello della sua spazzola nascondeva una sequenza specifica fortemente associata agli ebrei askenaziti tedeschi.

MA È TUTTO VERO? I geni dei geni. 

Alcuni detrattori hanno soprannominato My Heritage “il business degli sputi” , sollevando consistenti dubbi non solo sull’affidabilità dei riscontri ma anche sulla protezione della privacy sui dati genetici. Dal canto suo, i CEO dell’azienda hanno assicurato di prendere ogni precauzione per proteggere le informazioni personali, dandole in licenza a terzi esclusivamente dietro consenso dell’interessato e impiegando livelli di crittografia sofisticata per proteggerne l’archiviazione.

Gli scienziati ci mettono in guardia anche su un altro rischio, ovvero la presunta possibilità di prevedere malattie ereditarie trasmissibili ai figli. In un intervento del Corriere della Sera, il genetista di fama mondiale Bruno Dallapiccola avverte:

“Dopo 15 anni di lavoro sui geni conosciamo sì e no il 15% di quello che governa l’ereditarietà; questo significa che l’85% è ancora tutto da scoprire”.  Manca dunque una base scientifica reale che permetta di affidarsi ai test e nelle analisi via rete manca la possibilità di considerare la componente ambientale, fondamentale per non trarre conclusioni affrettate o proprio sbagliate. “Se, per esempio – continua il Prof. Dallapiccola – un soggetto ha il carattere dell’obesità ma per sua natura mangia poco, non sarà mai obeso. Attraverso autoanalisi superficiali rischiamo di diventare malati immaginari di patologie che non riscontreremo mai”.

Oggi però sappiamo che non tutti i difetti vengono per nuocere: nel corso della storia, alcune difformità sono state dei doni per pochi fortunati. È il caso di Nicolò Paganini, accusato di aver fatto un patto col diavolo per l’incredibile talento di violinista. Come racconta Sam Kean in “Il pollice del violinista“, Paganini era venuto al mondo con un’anomalia genetica che gli aveva donato dita straordinariamente flessibili. Tuttavia, fondamentale fu l’ambiente in cui crebbe, perché furono delle scelte di vita a renderlo un virtuoso e non solo il suo codice.

La natura ci ha reso tutti uguali e tutti diversi, ma siamo noi a decretare le regole del gioco.

Federica Marangon

 

LE STELLE IN TASCA E L’ARTE DELL’AVVENTURA: quattro itinerari da poco.

UN’EMOZIONE DA POCO 

Ho letto “L’isola di Arturo” a sedici anni, in inverno. La storia del ragazzino che vive Procida come fosse un universo leggendario mi aveva messo voglia di avventura. In un pomeriggio gelato, assieme a mio fratello e al cane, attraversai le zolle umide dei campi dietro casa, saltando fossati e calpestando le rovine di case della riforma agricola. Il giorno successivo, io e Sara raggiungemmo a piedi le valli della Moceniga, mentre il sole tramontava sulle bestemmie dei pescatori e sulle nostre elettrizzanti solitudini. Al ritorno mia madre ci preparò la cioccolata calda profumata di un Eldorado schiumoso e casalingo, un rito che segnava (pur se ancora non lo sapevamo) l’addio all’età dei sogni.

Pensavo che un giorno avrei esplorato terre sconfinate e conosciuto popoli lontani, tornando nella mia provincia zeppa di storie da raccontare. I desideri infantili sostano incorruttibili nell’antro luminoso del nostro cuore proprio perché rimangono inespressi. Ci portiamo dentro un’ala magica e possente che ci permette di volare sulla gimcana violenta delle sfighe su cui i grandi ci allertano; quegli ostacoli che probabilmente si avverano solo per il fatto di essere stati profetizzati, mannaggia a loro.

Nel capitolo ottavo del capolavoro della Morante, Arturo dice che la nostra natura ci porta a considerare i giochi dell’imprevisto più arbitrari di quel che sono: accusiamo gli scrittori di “vizio romanzesco” se tessono nella trama avvenimenti troppo sorprendenti, eppure molto spesso siamo portati a credere straordinari alcuni normalissimi fatti della vita reale. È in questa tensione prospettica che ho risolto il rammarico di non poter andare dove vorrei: cerco la meraviglia a brevi distanze e quasi sempre la trovo senza affanni, stupendomi molto per poco. Penso a Van Gogh, che dipinse “La notte stellata” dalla celletta del manicomio, censurando le inferriate. Nel cielo scorse un ammasso confuso di stelle e lo appiccicò sulla tela. Per troppo tempo quel vortice brillante venne attribuito al delirio covato nella sua testa. In realtà era riuscito a vedere, senza cannocchiale o competenze astronomiche, la misteriosa galassia M51.

Gli occhi esplorano e l’anima cammina. A fine dicembre, in quattro giorni, senza spostarmi dal Veneto, ho scalato il monte Summano, raccolto erbe per i colli Euganei, pedalato nella laguna di Caleri e camminato nel Regno dei Cimbri, sul tetto innevato di Asiago. Mi è bastato uno zaino, una bici decente, le ciaspole comprate per cinquanta euro e le mie scarpe preferite.

IL MONTE SUMMANO: RITI PAGANI E UN CRISTO D’ACCIAIO.

Alto 1296 metri, visto dall’uscita di Piovene Rocchette è la prima vera montagna della catena prealpina. Solitario e ingobbito, vulcano innocuo di calcare e basalto, il Summano ha una storia davvero strana. Sulla serpentina ingiallita dei suoi fianchi nasconde frammenti di ossa animali arsi nei roghi votivi preromani. Il nome deriva dal culto di Giove Summano, dio dei tuoni e delle tempeste notturne, marito infedele di una dea agghindata di fronde e serpenti, come la statuetta ritrovata sulla cima.

Dopo l’avvento del Cristianesimo e la cacciata dei pagani, nel monte ci fu un andirivieni di monaci ed eremiti. Nel 1452 il santuario sotto la vetta venne occupato dai Girolimini, inventori di un elisir medicamentoso a base di erbe e fiori, un intruglio dalla ricetta segretissima. Tutto il monte è un tripudio di flora colorata e odorosa: secondo la leggenda furono i bouquet lasciati dai pellegrini a dare origine a tale meraviglia.

La cima si raggiunge dal versante boschivo oppure da una mulattiera faticosa. Nel 1923, per festeggiare la fine della guerra, ci costruirono una croce in cemento armato di 16 metri. Nel 1993, lo scultore vicentino Giorgio Sperotto ci posò sopra un Cristo d’acciaio di 12 metri, raffigurato con un braccio alzato mentre risorge. Vederlo scintillare tra il cielo e le macchie di neve dà quasi le vertigini. È uno spettacolo impressionante, messo in scena nell’anfiteatro degli eterni giganti (il Carega, il Pasubio, via via fino alle Pale di San Martino) e osservato dalle morbide sponde dei Berici, l’antichissima barriera corallina che sputa sulla pianura fossili di esserini tropicali.

I RAPERONZOLI DEI COLLI AZZURRI

Fine umorista e appassionato di botanica, Alphonse Karr scrisse “Viaggio attorno al mio giardino” per prendere in giro un amico viaggiatore, sostenendo che nel suo orto vi fossero cose più interessanti rispetto a quelle cercate per il mondo. Il romanzo epistolare di Karr era uno dei libri preferiti di Van Gogh. L’artista amava camminare nella campagna provenzale. Per dipingere la natura doveva viverci dentro, sentirla respirare e perdersi, pennellando poi il magma ribollito nell’anima. Al fratello Theo confidò che una delle imprese più ardue fu riprodurre il nero-verde del cipresso e le sue proporzioni da obelisco egizio. “Mi stupisce il fatto – scrisse a Theo – che nessuno li abbia ancora fatti come io li vedo”.

Quando i vecchi setacciavano i boschi selvaggi dei colli per cogliere erbette e frutti, fissavano nella memoria alcuni punti utili a non perdere la strada. Si trattava per lo più di sassi protagonisti di strane leggende. Percorrendo a testa china i sentieri da Rovolon al Monte della Madonna ci si imbatte sulla “pria del calcagno” o la “carega dell’angelo”, punti in cui la Santa Madre si fermò a riposare insieme all’amico alato prima di raggiungere la cima.

Per trovare i “rampussoi” (i raperonzoli selvatici) occorre un occhio allenato e chi conosce i segreti della loro raccolta è restio a rivelarli. La loro bontà – mi ha detto un esperto – è data dalla tribolazione: i raperonzoli crescono in ogni ambiente, spalleggiando tra sassi e rovi, riuscendo a fiorire in qualsiasi condizione. Quando mostrano spavaldi la loro campanella azzurra è il momento in cui sono riconoscibili ma ormai amari e cattivi. Nella medicina tradizionale il raperonzolo, bollito in decotti, proteggeva dall’angina e dai malanni invernali. Fu anche protagonista di “Rapunzel“, celebre fiaba dei fratelli Grimm. La protagonista è una fanciulla rinchiusa dalla strega Gothel in una torre senza scale, tanto che l’amante per raggiungerla deve arrampicarsi sulla sua lunghissima treccia. Il motivo del rapimento è il furto dei raperonzoli della megera messo in atto dal padre della giovane, assillato dalle voglie della moglie in dolce attesa, che desidera ardentemente le rapette dolci da condire con olio e sale.

La ricerca delle erbe selvatiche ci riporta alla nostra genetica selvaggia, al fatto che per quanto istruiti e tecnologici, se non trovassimo qualcosa da mangiare moriremmo in poco tempo. Il sottobosco è un universo laborioso: spulciarlo per strappare arbusti commestibili significa entrare nella stanza dei bottoni di un sistema perfetto di connessioni e rinascite.

LA STRADA DELLE VALLI TRA VONGOLE E GABBIANI

E’ sempre stata la mia strada: quell’asfalto sdrucciolevole conosce ogni mio fallimento. Pedalarci sopra dopo le piccole e grandi delusioni era come ritrovare una scia di sogno, di speranza. Le curve sinuose che non disturbano la laguna erano per me la coda lucente di una cometa.

Per attraversarla si può partire da Rosolina, passando il cavalcavia della Romea e imboccando la via che porta fino alla chiesetta della Beata Vergine della Concezione, un pallido gioiello nella voragine polverosa dei campi desolati. La Moceniga è tutta tristezza e meraviglia. E’ un alternanza di terra e mare, gabbiani, fenicotteri rosa, aironi cinerini, nuvole in viaggio e canne ballerine. Prendendo l’argine che costeggia la provinciale per Rosolina Mare e poi il lungo viale immerso nella pineta, si arriva fino alla laguna di Caleri.

Le valli da pesca sono allevamenti estensivi in cui il pesce cresce in modo naturale. Lo si cattura nel tempo della “montata”, quando il pesce novello entra dal mare in laguna trovando l’acqua più calda e piena di cibo. Nelle mattine estive, quando il rosa dell’alba colora l’acqua di viola scuro, si possono raccogliere le vongole graffiando la sabbia. I pescatori, muniti di stivali alti e cappello, curvi per ore mentre il sole ingiallisce, sembrano uccelli minacciosi. In dialetto le vongole si chiamano “bibarasse”, cioè poveracce, perché erano pescate da gente umile, nel fango puzzolente che sta sotto l’acqua quieta.

IL TETTO INNEVATO DEL REGNO DEI CIMBRI E DELLA GRANDE GUERRA

Quando Van Gogh dipingeva paesaggi innevati, ci metteva sempre qualche uomo sopra. Erano per lo più poveri diavoli, contadini e minatori che nel bianco scintillante trovavano solo sofferenza e fatica. Nel 2018 Donald Trump ha chiesto al Guggenheim di acquistare il dipinto “Paesaggio con neve” . Il museo ha risposto che non era possibile concedere il quadro, ma se voleva poteva prendere “America”, il wc d’oro massiccio scolpito da Maurizio Cattelan.

Il centro di Campomulo oggi è un luna park sommerso dalle grida dei bambini sul bob, sciatori provetti e improvvisati, ragazze in moon boot ritratte mentre sorridono e scivolano. Eppure basta addentrarsi un attimo nei boschi non battuti per ritrovare il senso dell’altipiano. Nel suo ventrre gli unici rumori sono lo scricchiolio di passi ghiacciati, il fragore gentile delle polpette di neve cadute dai rami, il fiato corto che appanna la sciarpa. Dove non ci sono tracce è lì che inizia il pellegrinaggio.

L’altipiano di Asiago fu il rifugio dei Cimbri cacciati dai Romani dalle lande fredde della penisola danese. Erano un popolo di boscaioli e pastori, avvezzi alle esistenze rudi e quasi impossibili. Durante la Grande Guerra lassù la vita è stata presa a schiaffi. È difficile non pensarci mentre il sole ti ferisce gli occhi di bellezza. Cammini sotto il tiro dell’Ortigara, della Cima Caldiera, del Monte Chiara, santuari in cui la retorica del patriottismo non fa alcun effetto. Lì si moriva come cani gelati e la meraviglia della natura suonava come una bestemmia. L’ha raccontato con crude poesia Massimo Bubola in “Ballata senza nome”, recensito in questo articolo.

Se percorri le piste ordinate, le ciaspole sono inutili, ma appena ti avventuri tra i boschi diventano necessarie per galleggiare sulla neve. Se ti butti in mezzo ti sembra di essere un uovo spaccato nel monte di farina: è una sensazione incredibile. Ti senti nel leggendario Wild descritto da Jack London in Zanna Bianca, quella desolazione senza movimento, una “malinconia risoluta come tutto ciò che è infallibile”. E’ “la saggezza autoritaria e incomunicabile dell’eternità quando deride il futile sforzo della vita”.

Nelle potenze immense della natura il tuo niente è il tuo tutto. Siamo briciole di spazio e di tempo e di notte sogniamo un altrove accarezzato di sfuggita.

Federica Marangon

Lo sapevi che Babbo Natale era un orco?

La barba bianca, il vestito rosso e la renna volante sono frammenti di un immaginario che ha origini strane e antiche. Babbo Natale è la versione moderna e occidentale di un migrante turco che, divenuto vescovo della Città di Myra con il nome di “Sanctus Nicolaus”, ritrovò e riportò in vita cinque fanciulli, rapiti e uccisi da un oste e salvò dalla prostituzione tre adolescenti, come racconta una leggenda ripresa da Dante.

In origine era protettore dei marinai, una sorta di Poseidone cristianizzato: talmente lo veneravano i lupi di mare che assoldarono dei pirati per trafugare le sacre reliquie deposte a Bisanzio e portarle nella normanna Puglia, a Bari. Il culto di San Nicola di Bari è legato ai bambini e si trasmise in tutta Europa. Nelle regioni germaniche si legò al folklore di Odino, il dio viaggiatore con un occhio solo, campione della caccia notturna, col suo esercito di soldati redivivi, lesti e tetri come fantasmi. Alla viglia del solstizio d’inverno, i ragazzini erano soliti riempire di paglia le scarpe per sfamare il cavallo volante del dio, attendendo un dono come ricompensa per il gentile gesto. Abeti e vischi sono invece culti arborei di origine celtica, noti sin dai Saturnali romani, la prima grande scia di feste pagane di dicembre. La slitta volante, infine, riprende il cavallo alato di Odino, simbolo lunare legato ai miti del transito nell’oltretomba.

Eppure, come in tutti i rituali fanciulleschi che affondano radici in credenze ancestrali, santi, dei e creature capricciose si confondono. Così la discesa dal camino tipica del Babbo è un’usanza associata ai troll, folletti irsuti e malvagi che possono essere scorti solo dai bambini, rovinando i loro sonni beati. Come ci insegnavano i genitori, Babbo Natale è buono solo con i buoni: porta i regali a chi si è comportato bene e mette nel sacco chi è stato cattivo.

Nelle prime incarnazioni occidentali, il Babbo era il Re degli Elfi, un orco che ti lusinga con dolci e balocchi per attirarti a sé e rapirti. Non stupisce, quindi, che nella storia della Chiesa il suo culto sia stato più volte messo al bando. Negli anni della prima rivoluzione inglese (1642-1645) il governo gli dichiarò guerra e la festa, con il suo materialismo lassista e i richiami pagani, venne abolita.

Dal 1643 il giorno di Natale i parlamentari si presentavano in aula e i mercati puritani rimanevano aperti. Nel 1951, a Digione l’effigie del Babbo venne messa al rogo sul sagrato della chiesa, dinanzi ai lacrimoni di fanciulli attoniti. Erano gli anni del dopoguerra nazionalista, e la presenza del vegliardo portatore di doni costosi sapeva troppo di americanizzazione.

Il sospetto rimane tutt’oggi, dopo che la Coca Cola ha fissato per sempre il faccione barbuto del moderno Vescovo Nicolaus nell’immaginario collettivo. Il suo volto è doppio perché induce al sogno infantile di una festa piena di amore e, allo stesso tempo, ci invita a spendere e consumare.

Però, si sa, le fiabe sono magiche perché insegnano una morale e finiscono sempre bene. Allora bando ai perbenismi, viviamo felici e contenti e tanti auguri a tutti.

DALLE STALLE ALLE STELLE: LA LINGUA “VILLANA” – Ogni parola ha la sua storia

Baudelaire, poeta maledetto dell’Ottocento francese, diceva che “la campagna è quello strano posto in cui le galline girano crude”.

Nel secolo della rivoluzione industriale, la città era un universo nuovo e affascinante, gonfio di vapori e di luci. Rumori assordanti e ciminiere velenose rappresentavano l’irresistibile prodotto del moderno ingegno.

Si abbandonavano le strade di polvere e vento della campagna, l’eco di grilli e bestemmie, i profumi umidi di viti. Lì ci rimaneva la gente selvaggia che ignorava le innovazioni scientifiche o l’ebbrezza data dalla poesia e dall’assenzio.

La parola “villano”, che fino ad allora aveva indicato l’abitante della villa (la campagna), subì un peggioramento semantico e acquisì l’attuale significato. Lo stesso accadde per “bifolco”, originariamente “custode di buoi”.

I contadini, piegati dalla fatica e dalla fame, erano lontani da pensieri elevati e profondi. Pure la loro lingua, il dialetto, pareva macchiarsi di un’eccessiva concretezza.

Anche per noi, che rapidamente siamo passati dalla zappa all’Iphone, alcuni termini veneti antichi ci sembrano troppo rozzi. La parola “gotto” per “bicchiere”, ad esempio, deriva dal “guttus”, l’ampolla con cui i romani centellinavo le gocce di vino sui defunti per accompagnarli nel viaggio ultraterreno. Il rito sacro continuò a vivere nelle campagne, dove la fede – fusa con la superstizione – costituiva un’arma contro la paura.

Molte parole intellettuali derivano da oggetti palpabili o azioni. Così il “calcolo” era il sassolino con cui si facevano i conti; “ammagliare” era il “legare assi con corde”.

Altri termini, indicanti stati d’animo, fondano invece il loro significato nel linguaggio dei sacerdoti antichi. Il “desiderio” indicava propriamente la mancanza dei segni astrali che permettevano agli indovini di predire il futuro (da “de”, “senza”, e “sidus”, “astro”). Quando l’attenzione ai moti del cuore divenne più sottile, la parola “desiderio” iniziò ad indicare qualcosa che manca per essere felici, la volontà di ottenere ciò che ancora non c’è.

Fu lo stesso istinto di perfezione e completezza a portare l’uomo verso mete inesplorate, soprattutto l’uomo sofferente, umiliato e sottomesso ma ricco di esperienze. L’uomo che aveva bisogno della conoscenza per poter sopravvivere, di una buona dose di cinismo per convincersi del suo valore e di tanta rabbia per non distogliere lo sguardo dal cielo.

Come recita Gordon Gekko, in “Wall Strett”: “i più di questi laureati ad Harvard non valgono un cazzo. Serve gente povera, furba e affamata. Senza sentimenti. Una volta vinci e una volta perdi, ma continui a combattere. E se vuoi un amico, prenditi un cane”.

Federica Marangon 

MA GLI UOMINI SONO VERAMENTE COME DICE L’ISTAT? Risposte scioccanti a domande sciocche.

Pare che l’ultimo sondaggio ISTAT sugli stereotipi di genere mostri un’Italia maschilista e retrograda. I principali quotidiani sono invasi da titoli inquietanti: “Report shock dell’Istat: per un italiano su quattro la violenza sessuale è addebitabile al modo di vestire delle donne” si legge su Repubblica. “Violenza sulle donne, il sondaggio Istat: Per il 24% degli italiani è colpa del vestito” scrive il Fatto quotidiano e, similmente, il Corriere della Sera. Avvenire apre con “Il sondaggio choc dell’Istat: le violenze? Qualcuna se le cerca…“.

I risultati più commentati sono quelli che riguardano le opinioni stereotipate: “quasi un cittadino su quattro pensa ancora che la causa della violenza sessuale sulle donne sia addebitabile al loro modo di vestire e ben il 39,3 della popolazione italiana è convinta che sia possibile sottrarsi ad un rapporto sessuale, se davvero non lo vuole. E ancora, il 15 per cento pensa che una donna che subisce violenza sessuale quando è ubriaca o sotto l’effetto di droghe sia almeno in parte responsabile“.

Ci sono due modi per reagire al buio dei dati. Il primo cavalca l’approccio di Michele Serra, che nell’Amaca non si lascia abbattere: se quattro cittadini su dieci pensano che la violenza sia addebitabile al vestito, allora sei non lo pensano ed è un risultato confortante per un Paese in cui il “delitto d’onore” è stato abrogato meno di quarant’anni fa.

Il secondo è leggere le vere domande del sondaggio, che hanno coinvolto un campione non solo maschile ma anche femminile. Nella sezione incriminata – quella sugli stereotipi – non vi sono quesiti bensì affermazioni sulle quali l’intervistato/a deve dirsi d’accordo o meno. Le riporto di seguito, giusto per farsi un’idea:

La deduzione secondo cui il 24% degli italiani ritiene che “se una donna vestita sexy viene violentata allora se l’è cercata” è una scandalistica interpretazione della dichiarazione “le donne possono provocare una violenza sessuale con il loro modo di vestire” e, detta così, suona già un po’ meno malvagia. Ma proviamo ad immaginare il contesto: un giorno ricevete una telefonata da uno sconosciuto che vi pone una raffica di domande sugli stereotipi di genere, dandone per scontato non solo l’esistenza ma l’importante ruolo giocato nella violenza contro le donne, che sapete essere sempre più frequente. Dopo 11 domande in cui vi ha proiettato nel mondo macabro dei soprusi sessisti, vi chiede se è vero che il vestito provoca, che l’alcol e la droga disinibiscono, che si può sempre dire no ad un approccio sessuale, che se siete serie non vi violentano e, infine, che non tutte le denunce di stupro sono vere. Lo trovate così aberrante dire sì, sono d’accordo con queste affermazioni?

Lo stereotipo è di per sé una semplificazione di una qualcosa di complesso e talvolta oscuro. Forse lo si potrebbe definire una sorta di confort zone in cui il comportamento umano acquisisce un senso logico, quando spesso un senso non ce l’ha. Stereotipare provoca conseguenze disastrose dal punto di vista sociale, è vero, ma allo stesso tempo è un rifugio sicuro dove il male e il bene diventano prevedibili. Anche se ne riconosco l’assurdità, in fondo mi fa comodo sperare che indossare jeans e dolcevita mi preserverà dalle violenze; così come restare sobria non mi esporrà a rischi perché alle donne “serie” non si avvicinano gli uomini cattivi. E chi non si direbbe una donna seria? Quale degli uomini intervistati avrà pensato che la madre, la sorella o la moglie non lo sia? Per quanto ci riteniamo aperti e profondi, quando ci chiedono un’opinione sul mondo pensiamo all’interno dei confini del nostro orticello. Le vaste prospettive non ci appartengono quasi mai.

E ancora: secondo il Comunicato stampa dell’Istat il 31,5% degli italiani pensa che”gli uomini sono meno adatti a occuparsi delle faccende domestiche”. Anche se “meno adatto” non deve necessariamente essere tradotto con “mio marito mi obbliga a lavare i piatti mentre se ne sta seduto in divano a fare i cazzi suoi“, in realtà è proprio questa l’insinuazione. Con una domanda simile, l’intervistatore crea una relazione fugace e perversa in cui l’intervistato è indotto a dargli ciò che cerca, perché nella sua ipotesi c’è già una teoria, come nel famoso trabocchetto “di che colore era il cavallo bianco di Napoleone?“.

Stavolta pare che i ricercatori, nella foga di dar voce ad un allarme concreto, siano inciampati nell’“effetto Rosenthal”, ovvero la distorsione dei risultati dovuta alle aspettative: le loro domande influenzano le nostre risposte, dimostrando così l’esistenza di un problema di cui avevano già decretato la veridicità.

Si tratta di un rischio frequente negli esperimenti sociali e, allo stesso tempo, è una fragilità che ci appartiene. Spesso alcune profezie (soprattutto quelle nefaste, le sfighe) si avverano perché la convinzione secondo cui “è proprio così che doveva andare” ci induce a compiere inconsapevolmente azioni finalizzate a darci ragione, spesso a discapito della nostra felicità. Se ci convinciamo che la nostra relazione amorosa è in crisi, probabilmente metteremo in atto una serie di controlli, ricatti e moti ansiogeni tali da provocarne l’effettivo naufragio. A quel punto il “te l’avevo detto” suonerà alquanto patetico.

Nel caso del sondaggio, il vero stereotipo è la convinzione che lo stereotipo ci sia. E’ il proverbiale cane che si morde la coda, una torsione ontologica che fa venire il mal di testa e l’acidità di stomaco.

Fu Linda Laura Sabbadini, direttrice del dipartimento delle statistiche sociali e ambientali, la prima a sondare le questioni di genere. Nel 1995, in occasione della Conferenza Internazionale sulle donne, la ricercatrice dimostrò al mondo che le italiane accumulavano il maggior numero di ore lavorative tra cura domestica e impegno fuori casa. Da allora le statistiche di genere divennero parte integrante dell’ISTAT e le valsero la nomina di “Commendatore della Repubblica” assegnata dal presidente Ciampi nel 2006.

Nel 2016, però, l’area cambia: Linda Laura Sabbadini viene rimossa dall’incarico ricoperto dal 2011, provocando un movimento d’opinione in sua difesa, con Dacia Maraini schierata in prima linea. Il motivo? La riorganizzazione dell’assetto tecnico dell’istituto, che prevede una forma semplificata e centralizzata dei vari dipartimenti (questa è la versione ufficiale). L’ISTAT continua con “la rilevazione statistica sugli stereotipi sui ruoli di genere, nel quadro di un Accordo di collaborazione con le Pari Opportunità” ma lo fa in maniera ridotta.

Autore della controversa scelta è un Presidente, uomo, su cui è lecito chiedersi se faccia parte di quel 31% che ci vuole massaie fedeli. Perché finché così dicono che siamo, così noi saremo.

Federica Marangon

 

 

 

 

 

 

 

 

LA POESIA ADDOSSO: Daniel Varujan illustrato da Silvia Paggiarin.

Silvia Paggiarin, Mistero Armeno.
Chiostro S. Francesco, Este.

I turchi bussarono alla sua porta in una notte di aprile, quando i due figli dormivano e il terzo scalciava nel ventre della madre. Appena il tempo per infilare in tasca una penna e un quaderno, poi il viaggio nel buio. Era un cantore dei mari di grano, profeta di una mistica buona e calda come il pane, impastata di miti pagani e cristianesimo, il credo colpevole che gli costò l’esistenza. Chissà come sembrava l’oro opaco dell’Anatolia mentre l’ombra dei suoi passi pestava le stelle fredde dell’addio.

Silvia Paggiarin, Mistero Armeno.

Il 26 agosto del 1915 concluse la sua prigionia legato ad un albero, spezzato dalle torture, depredato di tutto. Cominciò poco dopo la forsennata ricerca del quaderno intriso di sangue e versi che di certo tenne con sé fino alla fine dei suoi giorni. Strana cosa la poesia, infetta dell’assurdo e necessario potere di sopravvivere a chi la scrive, figlia ingrata e irresistibile del genio umano.

Silvia Paggiarin, Mistero Armeno.

Nel 1921 un agente segreto ingaggiato dalla famiglia recuperò il quaderno da un cumulo di oggetti sequestrati ai prigionieri armeni, penoso bazar del male assoluto, quello che ti punisce nel nome di un Dio, di un tratto somatico, di un’invidia antica.

Il tesoro ritrovato era “Il Canto del Pane”, capolavoro incompiuto di Daniel Varujan. Quasi come beffa verso chi lo volle massacrato e nudo, il canto era un inno alla gioia, una celebrazione pulsante dell’incanto senza pretese dei campi coltivati, della luna solitaria, della vastità di un universo misterioso e incandescente riflesso negli occhi dei bambini attorno al focolare.

Portarsi addosso la poesia è una forma di resistenza disarmata che vince anche quando perde. È una lotta in metrica piena di luce contro la ruggine dell’odio e la rude balbuzie dell’insulto, che nulla dice e nulla sa.

Silvia Paggiarin, Mistero Armeno.

Soldato arruolato nell’esercito dei versi fu l’ebreo ungherese Miklós Radnóti, caduto in una fossa comune vicino al campo di Bor e trovato assieme al taccuino di poesie e una semplice preghiera: “Recapitatelo al professore universitario dottore Gyula Ortutay, al seguente indirizzo. Budapest, VII, Hor Horánszky u. 1. Grazie in anticipo”. In mezzo ai tragici resti, batteva ancora il cuore della parola salvata dagli inferi come un’Euridice d’inchiostro, splendida anche nel narrare l’orrore.

 

Silvia Paggiarin, Mistero Armeno.

Nei cinque anni in cui il figlio Lev fu prigioniero, dal 1935 al 1940, “la poeta” Anna Achmatova si recò tutti i giorni alle carceri di Leningrado dove i familiari attendevano notizie dei propri cari. Una madre le chiese se lei poteva descrivere tutto questo: “posso”, le rispose, e iniziò a comporre “Requiem”. Troppo alto era il rischio che le minute venissero trovate e distrutte, così le imparò a memoria e le fece imparare a parenti e amici, in una catena segreta riposta in un angolo tutto loro che donarono al mondo quando il Tempo lo pretese.

Non erano versi ma voti quelli cuciti nella tasca della giacca di un ragazzino senza nome sommerso dal mediterraneo. È comunque una poesia, se letta con la metrica dell’orgoglio innocente e zeppo di speranza di un ottimo studente dal futuro deserto. La salsedine e l’indifferenza degli abissi non hanno cancellato la sua voce, appiccicata in una plastica immortale vicino alle viscere gelate. Magra è la consolazione di diventare simbolo di un respingimento crudele, ma feroce è la lezione che dobbiamo apprendere mentre campiamo nella nostra bolla di immeritata fortuna. Perché il Verbo, il Vero, non muore mai.

Così è successo ai versi di Daniel Varujan, riportati in vita dopo cento anni dalle mani di Silvia Paggiarin, in una seconda risurrezione dai tratti leggeri e succosi com’è l’Oriente quando incontra l’Occidente creando una bellezza inconsueta, fatta di eternità piccole e raccolte in messi stese al sole, capriole di allodole, capelli di una donna che dorme. Illustrazioni dal silenzio delicato, un racconto dipinto in punta dei piedi perché così vuole il mistero della vita e così vuole l’amore.

 

Federica Marangon