MA GLI UOMINI SONO VERAMENTE COME DICE L’ISTAT? Risposte scioccanti a domande sciocche.

Pare che l’ultimo sondaggio ISTAT sugli stereotipi di genere mostri un’Italia maschilista e retrograda. I principali quotidiani sono invasi da titoli inquietanti: “Report shock dell’Istat: per un italiano su quattro la violenza sessuale è addebitabile al modo di vestire delle donne” si legge su Repubblica. “Violenza sulle donne, il sondaggio Istat: Per il 24% degli italiani è colpa del vestito” scrive il Fatto quotidiano e, similmente, il Corriere della Sera. Avvenire apre con “Il sondaggio choc dell’Istat: le violenze? Qualcuna se le cerca…“.

I risultati più commentati sono quelli che riguardano le opinioni stereotipate: “quasi un cittadino su quattro pensa ancora che la causa della violenza sessuale sulle donne sia addebitabile al loro modo di vestire e ben il 39,3 della popolazione italiana è convinta che sia possibile sottrarsi ad un rapporto sessuale, se davvero non lo vuole. E ancora, il 15 per cento pensa che una donna che subisce violenza sessuale quando è ubriaca o sotto l’effetto di droghe sia almeno in parte responsabile“.

Ci sono due modi per reagire al buio dei dati. Il primo cavalca l’approccio di Michele Serra, che nell’Amaca non si lascia abbattere: se quattro cittadini su dieci pensano che la violenza sia addebitabile al vestito, allora sei non lo pensano ed è un risultato confortante per un Paese in cui il “delitto d’onore” è stato abrogato meno di quarant’anni fa.

Il secondo è leggere le vere domande del sondaggio, che hanno coinvolto un campione non solo maschile ma anche femminile. Nella sezione incriminata – quella sugli stereotipi – non vi sono quesiti bensì affermazioni sulle quali l’intervistato/a deve dirsi d’accordo o meno. Le riporto di seguito, giusto per farsi un’idea:

La deduzione secondo cui il 24% degli italiani ritiene che “se una donna vestita sexy viene violentata allora se l’è cercata” è una scandalistica interpretazione della dichiarazione “le donne possono provocare una violenza sessuale con il loro modo di vestire” e, detta così, suona già un po’ meno malvagia. Ma proviamo ad immaginare il contesto: un giorno ricevete una telefonata da uno sconosciuto che vi pone una raffica di domande sugli stereotipi di genere, dandone per scontato non solo l’esistenza ma l’importante ruolo giocato nella violenza contro le donne, che sapete essere sempre più frequente. Dopo 11 domande in cui vi ha proiettato nel mondo macabro dei soprusi sessisti, vi chiede se è vero che il vestito provoca, che l’alcol e la droga disinibiscono, che si può sempre dire no ad un approccio sessuale, che se siete serie non vi violentano e, infine, che non tutte le denunce di stupro sono vere. Lo trovate così aberrante dire sì, sono d’accordo con queste affermazioni?

Lo stereotipo è di per sé una semplificazione di una qualcosa di complesso e talvolta oscuro. Forse lo si potrebbe definire una sorta di confort zone in cui il comportamento umano acquisisce un senso logico, quando spesso un senso non ce l’ha. Stereotipare provoca conseguenze disastrose dal punto di vista sociale, è vero, ma allo stesso tempo è un rifugio sicuro dove il male e il bene diventano prevedibili. Anche se ne riconosco l’assurdità, in fondo mi fa comodo sperare che indossare jeans e dolcevita mi preserverà dalle violenze; così come restare sobria non mi esporrà a rischi perché alle donne “serie” non si avvicinano gli uomini cattivi. E chi non si direbbe una donna seria? Quale degli uomini intervistati avrà pensato che la madre, la sorella o la moglie non lo sia? Per quanto ci riteniamo aperti e profondi, quando ci chiedono un’opinione sul mondo pensiamo all’interno dei confini del nostro orticello. Le vaste prospettive non ci appartengono quasi mai.

E ancora: secondo il Comunicato stampa dell’Istat il 31,5% degli italiani pensa che”gli uomini sono meno adatti a occuparsi delle faccende domestiche”. Anche se “meno adatto” non deve necessariamente essere tradotto con “mio marito mi obbliga a lavare i piatti mentre se ne sta seduto in divano a fare i cazzi suoi“, in realtà è proprio questa l’insinuazione. Con una domanda simile, l’intervistatore crea una relazione fugace e perversa in cui l’intervistato è indotto a dargli ciò che cerca, perché nella sua ipotesi c’è già una teoria, come nel famoso trabocchetto “di che colore era il cavallo bianco di Napoleone?“.

Stavolta pare che i ricercatori, nella foga di dar voce ad un allarme concreto, siano inciampati nell’“effetto Rosenthal”, ovvero la distorsione dei risultati dovuta alle aspettative: le loro domande influenzano le nostre risposte, dimostrando così l’esistenza di un problema di cui avevano già decretato la veridicità.

Si tratta di un rischio frequente negli esperimenti sociali e, allo stesso tempo, è una fragilità che ci appartiene. Spesso alcune profezie (soprattutto quelle nefaste, le sfighe) si avverano perché la convinzione secondo cui “è proprio così che doveva andare” ci induce a compiere inconsapevolmente azioni finalizzate a darci ragione, spesso a discapito della nostra felicità. Se ci convinciamo che la nostra relazione amorosa è in crisi, probabilmente metteremo in atto una serie di controlli, ricatti e moti ansiogeni tali da provocarne l’effettivo naufragio. A quel punto il “te l’avevo detto” suonerà alquanto patetico.

Nel caso del sondaggio, il vero stereotipo è la convinzione che lo stereotipo ci sia. E’ il proverbiale cane che si morde la coda, una torsione ontologica che fa venire il mal di testa e l’acidità di stomaco.

Fu Linda Laura Sabbadini, direttrice del dipartimento delle statistiche sociali e ambientali, la prima a sondare le questioni di genere. Nel 1995, in occasione della Conferenza Internazionale sulle donne, la ricercatrice dimostrò al mondo che le italiane accumulavano il maggior numero di ore lavorative tra cura domestica e impegno fuori casa. Da allora le statistiche di genere divennero parte integrante dell’ISTAT e le valsero la nomina di “Commendatore della Repubblica” assegnata dal presidente Ciampi nel 2006.

Nel 2016, però, l’area cambia: Linda Laura Sabbadini viene rimossa dall’incarico ricoperto dal 2011, provocando un movimento d’opinione in sua difesa, con Dacia Maraini schierata in prima linea. Il motivo? La riorganizzazione dell’assetto tecnico dell’istituto, che prevede una forma semplificata e centralizzata dei vari dipartimenti (questa è la versione ufficiale). L’ISTAT continua con “la rilevazione statistica sugli stereotipi sui ruoli di genere, nel quadro di un Accordo di collaborazione con le Pari Opportunità” ma lo fa in maniera ridotta.

Autore della controversa scelta è un Presidente, uomo, su cui è lecito chiedersi se faccia parte di quel 31% che ci vuole massaie fedeli. Perché finché così dicono che siamo, così noi saremo.

Federica Marangon

 

 

 

 

 

 

 

 

Federica Marangon Mi chiamo Federica Marangon e ho 32 anni. La letteratura è la mia passione: l’ho cercata in ogni luogo in cui ho vissuto e lavorato. Leggere mi aiuta a capire il mondo e ad accettarne la follia. Quando anche i libri non mi bastano, vado in bicicletta fino al mare o a camminare in montagna. E quando il meteo non lo permette, scrivo. Su di me ci sono sempre tante nuvole.

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