Il sognatore è una tartaruga: la banalità dell’amore da Dostoevskij a Maria De Filippi

C’è qualcosa in Dostoevskij che sfugge anche a Dostoevskij. Sarà che l’incedere inquieto tra i travagli dell’anima era per lui come una passeggiata su una strada di pianura. Sarà che l’immergersi nei misteri dell’essere umano era come sorseggiare una limonata in agosto. Quest’uomo aveva dentro gli occhi tutti i mondi possibili, senza possederne nemmeno uno. “Un essere di genere neutro”, come il Sognatore protagonista del suo romanzo “Le notti bianche”; uno che ha bisogno di viaggiare tenendo sempre il rifugio appresso, tipo la tartaruga, “che è animale e casa insieme”.

“Le notti bianche” è un racconto ambientato in poco tempo (quattro serate e un mattino) e poco spazio (una panchina di San Pietroburgo). Il Sognatore, in uno dei suoi vagabondaggi, incontra la giovane Nasten’ka in lacrime. Lei ha diciassette anni e racconta che piange per un giovane affittuario della nonna, sparito dopo averle giurato di tornare appena avesse racimolato qualche rublo. Ormai Naste’ka si è quasi rassegnata a vivere con la vecchia cieca che la tiene legata a sé con una spilla da balia. Nasten’ka sogna. Sogna il grande amore, sogna la libertà, le serate all’opera, gli abiti da mostrare, sogna di camminare mano nella mano con suo marito immersa nelle notti bianche di Pietroburgo, quando in primavera il sole tramonta dopo le 22, allungando la vita e rendendola più piacevole. Anche Il sognatore, ovviamente, sogna: il grande amore, la libertà, le serate all’opera e camminare con la moglie nell’incanto del sole che non vuol morire. Ma Nasten’ka è innamorata dell’affittuario, che ha un volto, un nome e una certa caducità. Il sognatore, mai sveglio e mai addormentato, in Nasten’ka vede un appiglio verso il reale, un saldo ponte tra ciò che avviene nella sua testa (e, quindi, non avviene) e ciò che potrebbe capitare davvero. La ama appena la vede di spalle, quando il pianto disperato le fa saltellare le scapole. Verso la quarta sera, quando ormai la speranza di rivedere il giovane è del tutto sbiadita, Nasten’ka decide che le conviene amare l’unico pretendente rimasto e glielo comunica. Il discorso è appassionato, tuttavia è chiaro che l’ipotesi di continuare a far la badante zittella è peggio che fingere di amare un uomo che, dopo tutto, la potrebbe rendere sufficientemente felice. Ma arriva il coup de théatre: nel bel mezzo di questo scambio lievemente imbarazzante, giunge il giovane squattrinato (ora un po’ meno) onorando la promessa che fece a Nasten’ka l’anno prima. La ragazza non ha alcun dubbio: se ne va verso la sua nuova vita lasciando il Sognatore sulla panchina illuminata, mentre questi riflette sulla certezza che invecchierà nella stessa camera, con la stessa donna di servizio, le stesse illusioni, pungenti e inappassibili come aghi di pino. Ma non ce l’ha con Nasten’ka, no, lui è felice della sua felicità. Ha assaggiato un pezzetto di gloria e gli è bastato. “Un attimo di beatitudine” – conclude –  “è forse poco seppure nell’intera vita di un uomo?”.

Il Sognatore

La storia di Dostoevskij non è originale. Da Goethe ad Alvaro Vitali, i triangoli amorosi ci hanno sempre appassionato. L’incertezza della scelta tra ciò che vorresti e ciò che hai, tra una felicità entusiasmante e la serena dimensione di un porto sicuro, sono paradigmi conosciuti. La morfologia di “Uomini e donne”, trasmissione cult di Maria De Filippi, non è tanto dissimile. In breve, funziona così: se parliamo di “trono femminile”, c’è una bella ragazza seduta su uno scranno oro e bordeaux che va cercando l’uomo della sua vita. Si presentano vari pretendenti. Lei li seleziona nel corso delle puntate, conoscendoli meglio quando li porta “in esterna”. L’uscita avviene a telecamere accese in location come una spiaggia, un locale alla moda, una palestra: i ragazzi parlano, si confidano, talvolta si baciano. Quando la questione tra i due si fa un po’ più seria, l’uscita avviene nella casa di famiglia, dove si trovano mamme che impastano tagliatelle, che si commuovono parlando del loro figliolo tatuato e sensibile, che inseguono la lucetta del monitor dicendo “ciao Maria!”. Verso la fine della primavera, e quindi della stagione televisiva, rimangono solitamente due ragazzi, e la tronista dovrà sceglierne uno durante l’ultima puntata, quando dal cielo pioveranno petali di rosa e una canzone romanticissima accoglierà il nuovo amore col pubblico in standing ovation. La scelta è tra un uomo tranquillo e pacato, sicuro del suo sentimento, e un ragazzaccio bello e dannato, per cui domani è sempre un altro giorno. In questo turbine di dubbi, la ragazza può affidarsi ai consigli del pubblico, un’arena di casalinghe attempate e pescivendole dei mercati rionali, calorose e per lo più indomabili, che parteggiano per l’uno o per l’altro pretendente, sapendo come andrà la storia d’amore da lì ai prossimi cento anni.

Stesse storie ma livelli diversi, se non diametralmente opposti. Perché allora definiamo “il trono” banale e “Le notti bianche” un capolavoro? Perché il lettore di Dostoevskij poco si diletta nel guardare “Uomini e Donne” e viceversa? Non ne farei un discorso di status o di appartenenze culturali. Il genio russo, soprattutto in un’opera breve e sostanzialmente semplice come questa, non crea distanze insormontabili con nessuno. Chiunque può comprenderla e godere della sua comprensione. Non ne farei nemmeno un discorso di linguaggio, seppur sia palese che l’elegante prosa ottocentesca stia allo slang romano verace come un’aragosta sta ad una scatoletta di tonno. Sulla differenza tra la profondità dei sentimenti di un Sognatore pietroburghese e quella di un giovane di borgata non si discute, perché della veridicità e portata dei sentimenti nessuno dovrebbe discutere: l’amore e il dolore sono moti che rendono l’uomo uguale e parimenti dignitoso, tanto quanto la fame, la sete, la paura di un uragano. La cesoia è in mano unicamente a chi la storia la racconta, a quali occhi indaghino le vertigini del cuore, a chi inventa. Nasten’ka, né bella né brutta, è un’anima quasi banale. Ma non quando il Sognatore – e quindi Dostoevskij – la racconta. A sua volta il Sognatore se la racconta talmente bene da farla diventare una Venere timida e indifesa, una donna per cui val la pena esistere. È tutto lì il segreto dell’innamoramento e il grado zero della letteratura, il modo in cui l’arte delle parole si immunizza dalla banalità: saper raccontare bene le storie, a noi stessi e agli altri, non annoiare. Il Sognatore del racconto altri non è che un abilissimo narratore, tanto che quando parla di sé gli viene più facile esprimersi in terza persona. Persino il mondo naturale intorno si assoggetta alle regole del suo sentire e quindi del suo scrivere: le nuvole non passano mai per caso, le stelle nemmeno, perfino il mattino della rivelazione un raggio di sole si nasconde, fendendo e sgonfiando una nube carica di pioggia.

Dostoevskij scrisse questa storia a 27 anni, nel 1848. Era figlio di un medico militare russo, dispotico e alcolizzato, e di una commerciante allegra e amante di musica e libri. La madre muore di tisi quando Dostoevskij ha sedici anni, il padre verrà ucciso dai suoi dipendenti contadini non molto dopo. Lo scrittore cresce in un convitto militare di Mosca, ma non ha alcuna intenzione di intraprendere quel tipo di carriera. Povero e malato, insegue il suo sogno, la sua condanna, il suo vero talento: creare nuovi mondi per raccontarci il mondo che abitiamo. È come se dentro di lui dimorassero tutti i sentimenti di cui un animo è capace, quasi se lui li avesse provati tutti, dai più alti ai più biechi. Dostoevskij è stato la Letteratura, e anche se “Le notti bianche” non rappresenta una delle prove migliori, costituisce l’emblema della sua bravura: avere tra le mani una storia banale e farne un capolavoro di indagine sull’essere umano.

Il Sognatore, lo scrittore, rimane solo, ad invecchiare tra i demoni e una tazza di the preparata da una domestica sdentata. A raccontare, a raccontarsi, senza dover per forza di cose vivere davvero. Detiene uno dei più grandi poteri, uno dei più pericolosi: narrando riesce a farsi ascoltare quando spiega agli altri la Verità, che potrebbe anche essere soltanto la sua, forse sbagliata. Ma è tutto ciò che ha nel guscio che si porta appresso, tartaruga delle penne e delle righe.

Federica Marangon Mi chiamo Federica Marangon e ho 32 anni. La letteratura è la mia passione: l’ho cercata in ogni luogo in cui ho vissuto e lavorato. Leggere mi aiuta a capire il mondo e ad accettarne la follia. Quando anche i libri non mi bastano, vado in bicicletta fino al mare o a camminare in montagna. E quando il meteo non lo permette, scrivo. Su di me ci sono sempre tante nuvole.

4 thoughts on “Il sognatore è una tartaruga: la banalità dell’amore da Dostoevskij a Maria De Filippi

  1. Complimenti Federica sei sempre una sorpresa!! Quando ti conobbi capii subito il tuo spessore di donna allo stesso tempo la tua umiltà!! Sei una grande! Sono felice di averti conosciuta!!

  2. Cara Federica, ho letto con molto interesse il tuo saggio ( permettimi di definirlo così), ma essendo io, duro di comprendonio e meno brillante di te ,mi riservo di dare , non un giudizio, (chi sono per darlo), ma comprendere appieno quello che vuoi dire..e per questo ci vuole un briciolo di tempo..ciao.

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