C’è un sentiero che parte dalla chiesa di Rovolon, si inerpica fino all’eremo di Sant’Antonio abate sul Monte della Madonna e poi si ributta, umido e scuro, nella piazza degli Alpini.
Io e Jack lo percorriamo spesso in queste giornate di autunno, quando la natura tenta di resistere ai primi geli e, nella lotta accesa, diventa più bella che mai.
I roveri rosso-oro brillano sui colli come fossero gioielli di morbide e lente matrone. Tutt’intorno brulica la vita mentre si prepara al sonno del letargo: strepitano tordi e scriccioli, raspano i cinghiali, cedono i rametti sulle foglie come matite rotolate su ammassi di giornali.
Jack è attratto da tutti i rumori e va avanti e indietro cercando scie di bestie nascoste. Conosce il mondo annusandolo; le leggi che regolano l’universo devono passare per le sue narici immerse nelle trame sotterranee di vermi o nell’aria grigia, che ora sa sempre di legna arsa e carne arrostita.
Devono esser state estenuanti le trattative che hanno trasformato l’animale più oscuro e selvaggio, il lupo, nel miglior amico dell’uomo, il cane. Jack è il risultato di questo paradossale patto per la sopravvivenza, un batuffolo peloso di tregua dopo millenni di ferocia. Eppure nella sua elica genetica sopravvive una memoria di foresta. Lo noto quando si mette a dormire: scava il pavimento come per rattoppare un giaciglio, poi gira più volte su stesso per allontanare bisciolini e sterpaglie, avvertendo i nemici che riposerà guardingo. Lo fa nonostante sia in casa al caldo, lontano da minacce antiche.
Ogni nostra decisione e ogni nostro pensiero dovrebbe prendere forma passeggiando nel bosco. In quell’equilibrio violento e silenzioso di morti e rinascite, il nostro spirito riesce a dare un senso al fango dell’esistenza. I dubbi e le paure si confondono tra le capriole azzurre che spuntano dai pungitopo. L’universo naturale, semplice e immenso, ci ricorda che siamo creature brevi e inquiete, capaci di lasciare solo qualche traccia sulla terra nera.
Ecco perché, nel Duecento, i benedettini costruirono su questo monte un monastero. Delle loro giornate fra orti e preghiere rimangono i ruderi sui quali fu costruita la minuscola chiesa appoggiata all’alto campanile. Erano devoti a Sant’Antonio abate, eremita vissuto in Egitto.
La vocazione giunse quando gli apparse in sogno un monaco che gli disegnò un futuro di solitudine e contemplazione. Ma i demoni della tentazione non lo abbandonavano, così si chiuse in una tomba di roccia, nutrendosi di tozzi di pane calati da uomini di buon cuore. Dopo vent’anni, purificato dalle incertezze, uscì dal ventre buio per guarire i sofferenti nel nome di Dio.
Oggi Sant’Antonio Abate è il protettore degli allevatori e degli animali domestici. Viene rappresentato con il “porseeto” che i suoi seguaci erano soliti donare agli affamati.
Ogni seconda domenica di gennaio, la comunità di Teolo lo festeggia presso il santuario, cucinando salsicce e bevendo Merlot. Nella caciara rivive la parabola dell’anacoreta; i colli diventano piramidi dai fianchi appesantiti e la nebbia una tempesta di sabbia che non si può toccare.
Strano è il destino degli eremiti, capovolto come la storia del lupo e del cane. Per essere davvero soli lo devono dire a tutti, per raggiungere il segreto fine hanno bisogno di più testimoni possibili. D’altronde la dimensione collettiva dell’ascesi spirituale è qualcosa che accomuna tutte le confessioni.
Sull’altare posto davanti alla grotta del santuario, la tensione all’esposizione dei moti intimi è raccolta in un quaderno dove i pellegrini scrivono invocazioni e ringraziamenti. Qualcuno chiede protezione per i cari e gli amici oppure prega per le persone che non ci sono più. Quando scorgo queste tracce di vite sconosciute che mi ronzano attorno, mi chiedo come mai i i santi non riescano a leggerci l’anima risparmiandoci la fatica di riempire fogli arricciati dall’umidità alla mercé di sconosciuti. Di certo un miracolo si compie ogni volta che la penna messa a disposizione dei fedeli rimane al suo posto, senza che nessuno si azzardi ad intascarla.
La prima e l’ultima eremita sono state due donne. All’inizio del IX secolo, la ricca vedova Felicita decise di spogliarsi di ogni bene e raggiunse la grotta del Monte del Madonna, dove ancora zampilla una delle fonti più alte dei colli euganei. Mille anni dopo, Claudia, una ragazza piemontese ha seguito le sue orme. Ispirata dagli Hare Krisha conosciuti in India, nel 2003, per più di un anno, ha vissuto nel santuario, nutrendosi prevalentemente dei frutti del bosco.
In effetti l’ambiente attorno è un mercato a cielo aperto. Nel tardo autunno qualche impavido fico d’India nano rimane aggrappato ai sassi per godersi gli ultimi raggi. Lungo il tratto che corre dall’uscita del bosco fino alla radura del monastero, quasi per magia si viene catapultati in uno spiazzo assolato identico ai monti mediterranei. La roccia bianca è coperta dal tappeto di frutti rossi importati nel Cinquecento dall’America, allora spacciata per l’India. I fichi crescono in orizzontale come tentacoli gonfi e spinosi, per raggrinzire pian piano quando l’aria comincia a gelare.
Dove la vegetazione rinfittisce, il sentiero è lastricato di corbezzoli maturi. I rami della pianta sono utili per scacciare le strighe, gli uccellacci notturni avidi del sangue di fanciulli. Per il rosso dei frutti, il verde intenso delle foglie e il bianco dei fiori, durante il Risorgimento il corbezzolo divenne il simbolo dell’unità d’Italia. Ma oltre ai colori, questo arbusto celebra l’onor patrio in quanto, tenace ed ostinato, butta i frutti quando il mondo intorno si trasforma in un deserto freddo. “Ricominci eterno, il tuo maggio è nella bruma”, scrisse Pascoli nell’ode che gli dedicò.
Il nome scientifico del corbezzolo è “arbutus unedo”, dove “un-edo” sta per “ne mangio uno solo”. Lo scelse Plinio il Vecchio che, contrariamente al gusto comune, trovava i frutti aspri e insipidi; o forse furono gli effetti indesiderati di una scorpacciata ad ispirargli un epiteto che ci mettesse in guardia, come fanno i bugiardini delle medicine.
Usciti dal luogo sacro, ci si arrampica sul “salto della volpe”, un cumulo di rocce da cui si scorge uno dei panorami più incredibili dei colli euganei. Davanti agli occhi, oltre il Monte Altore, compare la gobba solitaria del Lozzo, le costole aguzze del Pirio e poi il Venda, che sembra un panettone schiacciato. Ora che le giornate hanno il fiato corto, mentre si scende verso il passo Fiorine e si ripiglia l’ultimo chilometro di bosco, il sipario rosa delle nuvole a metà pomeriggio inizia a calare. Se la giornata è limpida si possono scorgere, lontane, le meringhe delle prealpi. È un incanto che non stanca mai, e ogni volta mi chiedo se sia stata inventata prima la natura o l’idea di meraviglia.
Jack corre svelto per la discesa, poi torna a vedere se ci sono ancora. La sua gioia è garantita e incontenibile; la mia invece è sospesa, perché noi umani siamo imbattibili nel complicare le cose.
Trattengo negli occhi quello che ho visto, lo metto in un anfratto della mente e lo ritiro fuori di notte, quando penso che mentre il mondo artificiale si trascina caotico, un corbezzolo rotola sul grugno di un cinghiale, il tasso comincia la sua caccia, secchiate di luna innaffiano i fichi d’India e Jack scava un letto di sopravvivenza millenarie: ora non serve, ma domani, chissà.