LA POESIA ADDOSSO: Daniel Varujan illustrato da Silvia Paggiarin.

Silvia Paggiarin, Mistero Armeno.
Chiostro S. Francesco, Este.

I turchi bussarono alla sua porta in una notte di aprile, quando i due figli dormivano e il terzo scalciava nel ventre della madre. Appena il tempo per infilare in tasca una penna e un quaderno, poi il viaggio nel buio. Era un cantore dei mari di grano, profeta di una mistica buona e calda come il pane, impastata di miti pagani e cristianesimo, il credo colpevole che gli costò l’esistenza. Chissà come sembrava l’oro opaco dell’Anatolia mentre l’ombra dei suoi passi pestava le stelle fredde dell’addio.

Silvia Paggiarin, Mistero Armeno.

Il 26 agosto del 1915 concluse la sua prigionia legato ad un albero, spezzato dalle torture, depredato di tutto. Cominciò poco dopo la forsennata ricerca del quaderno intriso di sangue e versi che di certo tenne con sé fino alla fine dei suoi giorni. Strana cosa la poesia, infetta dell’assurdo e necessario potere di sopravvivere a chi la scrive, figlia ingrata e irresistibile del genio umano.

Silvia Paggiarin, Mistero Armeno.

Nel 1921 un agente segreto ingaggiato dalla famiglia recuperò il quaderno da un cumulo di oggetti sequestrati ai prigionieri armeni, penoso bazar del male assoluto, quello che ti punisce nel nome di un Dio, di un tratto somatico, di un’invidia antica.

Il tesoro ritrovato era “Il Canto del Pane”, capolavoro incompiuto di Daniel Varujan. Quasi come beffa verso chi lo volle massacrato e nudo, il canto era un inno alla gioia, una celebrazione pulsante dell’incanto senza pretese dei campi coltivati, della luna solitaria, della vastità di un universo misterioso e incandescente riflesso negli occhi dei bambini attorno al focolare.

Portarsi addosso la poesia è una forma di resistenza disarmata che vince anche quando perde. È una lotta in metrica piena di luce contro la ruggine dell’odio e la rude balbuzie dell’insulto, che nulla dice e nulla sa.

Silvia Paggiarin, Mistero Armeno.

Soldato arruolato nell’esercito dei versi fu l’ebreo ungherese Miklós Radnóti, caduto in una fossa comune vicino al campo di Bor e trovato assieme al taccuino di poesie e una semplice preghiera: “Recapitatelo al professore universitario dottore Gyula Ortutay, al seguente indirizzo. Budapest, VII, Hor Horánszky u. 1. Grazie in anticipo”. In mezzo ai tragici resti, batteva ancora il cuore della parola salvata dagli inferi come un’Euridice d’inchiostro, splendida anche nel narrare l’orrore.

 

Silvia Paggiarin, Mistero Armeno.

Nei cinque anni in cui il figlio Lev fu prigioniero, dal 1935 al 1940, “la poeta” Anna Achmatova si recò tutti i giorni alle carceri di Leningrado dove i familiari attendevano notizie dei propri cari. Una madre le chiese se lei poteva descrivere tutto questo: “posso”, le rispose, e iniziò a comporre “Requiem”. Troppo alto era il rischio che le minute venissero trovate e distrutte, così le imparò a memoria e le fece imparare a parenti e amici, in una catena segreta riposta in un angolo tutto loro che donarono al mondo quando il Tempo lo pretese.

Non erano versi ma voti quelli cuciti nella tasca della giacca di un ragazzino senza nome sommerso dal mediterraneo. È comunque una poesia, se letta con la metrica dell’orgoglio innocente e zeppo di speranza di un ottimo studente dal futuro deserto. La salsedine e l’indifferenza degli abissi non hanno cancellato la sua voce, appiccicata in una plastica immortale vicino alle viscere gelate. Magra è la consolazione di diventare simbolo di un respingimento crudele, ma feroce è la lezione che dobbiamo apprendere mentre campiamo nella nostra bolla di immeritata fortuna. Perché il Verbo, il Vero, non muore mai.

Così è successo ai versi di Daniel Varujan, riportati in vita dopo cento anni dalle mani di Silvia Paggiarin, in una seconda risurrezione dai tratti leggeri e succosi com’è l’Oriente quando incontra l’Occidente creando una bellezza inconsueta, fatta di eternità piccole e raccolte in messi stese al sole, capriole di allodole, capelli di una donna che dorme. Illustrazioni dal silenzio delicato, un racconto dipinto in punta dei piedi perché così vuole il mistero della vita e così vuole l’amore.

 

Federica Marangon

Federica Marangon Mi chiamo Federica Marangon e ho 32 anni. La letteratura è la mia passione: l’ho cercata in ogni luogo in cui ho vissuto e lavorato. Leggere mi aiuta a capire il mondo e ad accettarne la follia. Quando anche i libri non mi bastano, vado in bicicletta fino al mare o a camminare in montagna. E quando il meteo non lo permette, scrivo. Su di me ci sono sempre tante nuvole.

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