“BALLATA SENZA NOME” DI MASSIMO BUBOLA: I MILLE VOLTI DEL MILITE IGNOTO

“Lo sconosciuto, il combattente di tutti gli assalti, l’eroe di tutte le ore, ovunque passò o sostò, prima di morire, confuse insieme il valore e la pietà. Soldato senza nome e senza storia, Egli è la storia: la storia del nostro lungo travaglio, la storia della nostra grande vittoria”.

Comunicato ufficiale del Ministro della guerra Luigi Gasparotto per il conferimento della medaglia d’oro al valore militare, 4 Novembre 1921, Roma.

 

“Giorni e giorni di trincea
a scavare gallerie
nere e lunghe come la notte
le mie lacrime per te
nere e fonde come la morte
le mie lacrime per te.
Cade neve sopra neve
tira il vento su di me
in un turbine d’argento
tornerò vicino a te.”

CHI E’IL MILITE IGNOTO?

Maria Bergamas

Il 27 ottobre 1921, nella Cattedrale di Aquileia, Maria Bergamas, madre di Antonio Bergamas, morto in battaglia sul monte Cimone il 18 giugno 1916, deve scegliere un feretro tra undici corpi di soldati non identificati, raccolti nei luoghi delle battaglie più atroci, senza elmetto né mostrine. Maria accarezza ogni bara e quando arriva alla decima, si inginocchia e grida il nome del figlio. I soldati ignoti vengono benedetti con l’acqua del Timavo, un fiume di trincea sulle cui acque si incrociano Croazia, Italia e Slovenia.

Il 29 ottobre la bara scelta da Maria Beragmas viene caricata su un treno destinato a Roma per essere depositata presso l’Altare della Patria. Il vagone attraversa lentamente mezza Italia, sostando in 120 città. Una folla lo segue piangendo, lanciando fiori e corone, agitando fazzoletti. Il treno giunge nella capitale il 2 novembre. La cassa di quercia viene esposta fino al giorno della manifestazione del 4 novembre, la cerimonia più partecipata della storia dell’Italia unita. Alle nove suonano tutte le campane di Roma e partono le salve di cannone, poi tuona un silenzio sovrumano. Per trenta minuti, la folla tace: sono consentiti solo i lamenti delle madri e delle spose. Il sepolcro è costruito con le pietre delle montagne del Grappa e con il marmo del Carso.

Corridoio del Forte Verena, Roana (VI), (foto mia).

L’idea di erigere un monumento ad un milite ignoto venne al colonnello d’aviazione Giulio Douhet nel luglio del 1920, in risposta alle accuse mosse ai soldati da Luigi Cadorna, comandante supremo del Regio Esercito, all’indomani della battaglia di Caporetto. Il generale accusò i militari di essere vili disertori e a loro diede la colpa della disfatta in cui morirono 12.000 uomini, 30.000 furono feriti e 265.000 vennero fatti prigionieri. Si disertava per sopravvivere ad una tattica bellica rovinosa, che consisteva nell’offrire plotoni di combattenti alle mitragliatrici; una pratica talmente violenta da suscitare pietà tra gli stessi nemici. I soldati, strisciando a terra, dovevano aprire i varchi tra i reticolati tagliando i fili con le pinze: in tal modo si offrivano come bersaglio appena uscivano dalla trincea. I gruppi addetti a creare il varco si componevano di soldati invisi ai superiori, mandati al macello per punizione, il più delle volte ubriacati per lavarli dalla paura.

Cima Dodici, Asiago (foto mia).

A Cadorna non interessava il prezzo delle vite umane. In una circolare del 28 settembre 1915, scriveva: “Chi tenti ignominosamente di arrendersi i retrocedere, sarà raggiunto – prima che si infami – dalla giustizia sommaria del piombo delle linee retrostanti o da quello dei carabinieri incaricati di vigilare alle spalle delle truppe, sempre quando non sia freddato prima da quello dell’ufficiale”.

Nel 2011, in nome della verità storica e su suggerimento di Ferdinando Camon, la città di Udine cambia il nome di  “Piazzale Cadorna” in “Piazzale Unità d’Italia”. “Se per battezzare una strada si usa il nome di Cadorna – dirà lo scrittore – non c’è augurio più lugubre per l’esercito italiano. Aver dato il nome di Cadorna ad una via ieri è stato un errore; mantenerlo è una colpa”.

L’iniziativa di Dohuet diventa legge l’11 agosto del 1921. La guerra aveva diviso, ma il culto dei morti univa. Si amava uno sconosciuto come si amava la vita che restava fuori dalle logiche di potere e dalla retorica dell’onore. In quel corpo senza nome, ogni madre ritrovava il proprio figlio, ogni donna il proprio amante, ogni figlio il proprio padre. La “nazione” era un corpo disfatto e celebrato, era un dolore che apparteneva a tutti.

Verso Cima Portule, Asiago (foto mia).

“BALLATA SENZA NOME” di Massimo Bubola.

Veduta dal bivacco “Busa delle Dodese”, Asiago (foto mia).

Sul carro funebre che traghettò la salma del milite ignoto da Aquileia a Roma, vennero incise le parole del IV Canto dell’Inferno: “l’ombra sua torna, ch’era dipartita”. Sono le parole pronunciate da una delle quattro ombre, “né tristi né liete” che accolgono Dante e sono rivolte a Virgilio.

L’ombra è incorporea, non ha colore, non ha qualità e vive della negazione rispetto all’oggetto che la proietta. Nella cultura classica, l’ombra rappresenta la nostra fine.

Umbras” è la parola con cui Virgilio conclude l’Eneide. Riferendosi alla morte di Turno per mano di Enea, canta: “le membra nel freddo si sciolgono e la vita con un gemito fugge, indignata, nelle ombre“. “Indignus” è topico dei morti anzitempo, “dei giovani morti sulle vie della storia per la realizzazione di una lontana utopia” (dal commento di Alfonso Traina).

Vista sull’Ortigara (foto mia).

Il poema che avrebbe dovuto celebrare l’eroico splendore dell’impero romano si chiude con la sommessa celebrazione dell’insensato sacrificio umano richiesto dalla brama di potere. Ciò che distingue l’epica dalla retorica forse è proprio questo: non esistono colori quando i ragazzi muoiono in nome della Patria, diventando ombre destinate a perdere i loro tratti e le loro belle occasioni.

Per il centenario della grande Guerra, Massimo Bubola (cantautore di culto nel panorama della musica italiana) ha scelto di dare un volto alle undici ombre dei soldati ignoti scrivendo “Ballata senza nome”.

Nel suo racconto, Maria Bergamas, dopo la morte del figlio, impara a comprendere la lingua dei morti. Sono voci che salgono dal fuoco del camino ravvivato dal ventaglio di penne di gallina, o brusii in fuga tra le navate della chiesa. La sua disperazione, che è ormai “solo l’ombra di una cordigliera lontana”, è diventata un orecchio in grado di ascoltare le storie di chi non c’è più. Gli undici soldati ignoti chiusi nelle bare le narrano la loro vita e i danno a Maria dei messaggi da portare ai familiari. Lei li consola e li rassicura, promettendo loro di non venire dimenticati.

Massimo Bubola inventa i nomi, le età e i mestieri di ognuno. Fa rivivere le ombre raccontando storie mai avvenute eppure vere nella loro fedeltà ai fatti, ai documenti, alla profondità con cui indaga il sentire di gente semplice che ha combattuto una guerra mai voluta. Tra loro vi è Sante Pesavento, un contadino sepolto sotto un olmo, disteso su un’ansa del Piave, ucciso in un buco di pietra “zeppo di nuvole”. Sante conosceva già l’odore della morte, che è l’odore del sangue e della merda del maiale quando viene ucciso; un odore che si trasforma in striscioline di vapore che “di notte come artigli si allungavano sui muri della casa”. Nato a Terrazzo (Verona), dove “si vedono i Colli Euganei in lontananza come dinosauri in viaggio”, mentre moriva sentiva le mani di sua madre che gli posavano sul petto freddo un maglione confezionato per Natale.

Vista verso il Lagorai (foto mia).

C’è poi Michele Costa, nato ad Albenga, morto sul ghiacciaio della Marmolada, nell’immobile bianco infinito della neve, che “acceca più del bianco del mare” e ti entra nei pori dell’anima, “subdolo e letale come un veleno”. Cerca di star sveglio, mentre la ninna nanna gelata della Regina delle Nevi tenta di strapparlo alla vita. Pensa alla sua sposa nelle notti di luna, quelle in cui si “compravano” i bambini. Pensa all’ulivo piantato per vederlo fiorire un giorno lontano, pensa al bianco del vestito della moglie il giorno del matrimonio, ai suoi capelli neri sul cuscino. “Per te che conoscevi le onde del mare – gli dirà Maria – la valanga parlava una lingua straniera. Non parlava né italiano né tedesco, ma la lingua delle aquile e dei temporali”.

Foto di un tronco nei pressi di Stoner (Enego), foto mia.

C’è infine Francesco Barducci di Goro, giovane in attesa di essere ordinato sacerdote, che si chiede per quale perverso ragionamento uccidere per la patria sia un modo per rispettare la volontà di Dio, come ha detto il cappellano. “Ma come potevo accettare una tale logica, contraria alle fondamenta del Vangelo? E questo perverso ragionamento come poteva non valere per un cattolicissimo monaco austriaco che pregava per la pace quanto me?”. In trincea viveva in un tanfo costante, arrotolato in un’umida coperta “piena di pidocchi e brutti sogni”. Un giorno si incammina per il Monte Calvario, una delle alture del Podogora, a Gorizia, in un intrico di reticolati divelti, dove si trovavano “membra umane lanciate come concime sui campi, appese agli spuntoni degli alberi a brandelli”, dove “tutti urlavano di tutto”. Soccorre un soldato ungherese, che gli si rivolge in latino, chiedendogli di assolverlo da ogni peccato. Muore con gli occhi pieni di gratitudine, mentre il buio si abbassa su lui e sulla montagna. Morirà anche Francesco poco dopo, ucciso da un cecchino, in pensiero per il dispiacere che avrebbe dato a suo padre.

In “Ballata senza nome”, Maria Bergamas sceglierà il corpo di Vittorio Savodelli, falegname della provincia di Bergamo. “L’amore è un’infezione antica” racconta alla donna, “anche qui in mezzo a un pandemonio di rumore e distruzione, c’è un viavai continuo di lettere e di sospiri, di timbri di labbra col rossetto e di lacrime bistrate sulle carte da lettera e ciglia e petali e ciocche di capelli nelle buste”. Oscurato dall’ombra di un fratello morto piccolo, “allattato a latte e lacrime”, Vittorio non è mai stato amato, ed è per questo che Maria lo vuol portare con sè all’altare della patria: “Che lo amino ora e per sempre tutte le madri, i padri, i figli e le donne d’Italia”.La cappa di nuvole elettriche che galleggia fuori dalla Basilica si trasforma in pioggia, e gli undici corpi viaggiano in cerca di pace.

Durante la presentazione tenuta nel borgo di Cison di Valmarino (sui colli trevigiani) Massimo Bubola si è commosso più volte nel leggere le sue stesse parole, come fossero davvero confessioni di soldati e non invenzioni. Ha percorso tutti i sentieri che furono teatro di massacri per riuscire a tradurre le immagini e ha arrangiato canti di guerra tradizionali e nuove canzoni nel disco “Il testamento del Capitano”. “La retorica” – ha detto – “è come lo zucchero filato: ti riempie la bocca ma dopo un istante hai solo una puntina di zucchero sulla lingua”. Per questo ha scelto di celebrare gli uomini, non gli eroi; la paura e non il coraggio; l’amore per i loro cari e non per una vittoria che è costata loro la vita.

 

Appendice: i Giornali di Trincea.

Veduta dal forte Verena (foto mia).

All’inizio della Grande Guerra, alcuni combattenti scrivevano dei brevi giornali da consegnare nelle baracche del fronte. Si trattava per lo più di caricature o vignette satiriche litografate o riprodotte con il velocigrafo, a volte addirittura manoscritte. Dopo la disfatta di Caporetto, il Governo italiano, sentendo la necessità di intervenire con azioni di propaganda diretta, costituisce un apposito “Ufficio di propaganda” presso il Comando Supremo (il servizio “P”) con diramazioni presso tutti i comandi minori, con l’incarico di divulgare linee guida militari ma anche risollevare lo spirito dei soldati. Dentro ai giornali di trincea c’era spazio anche per rebus, lettere, vignette, persino giochi a premi. In essi si trova la rappresentazione quotidiana della guerra e l’inganno con il quale si mandava al massacro una generazione di ragazzi.

Di seguito alcune immagini tratte dal libro di Mario Isnenghi, “Giornali di Trincea 1915-1918”, in un’edizione Einaudi del 1977.

Federica Marangon

Federica Marangon Mi chiamo Federica Marangon e ho 32 anni. La letteratura è la mia passione: l’ho cercata in ogni luogo in cui ho vissuto e lavorato. Leggere mi aiuta a capire il mondo e ad accettarne la follia. Quando anche i libri non mi bastano, vado in bicicletta fino al mare o a camminare in montagna. E quando il meteo non lo permette, scrivo. Su di me ci sono sempre tante nuvole.

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