Nonostante lo preparasse da anni, manteneva comunque alcune inquietudini. L’arrosto di maiale era il classico piatto della domenica. Per anni lo aveva cucinato sua nonna, poi sua madre e infine lei, la moglie.
L’arrosto di maiale è un piatto difficile. Prevede la scelta perfetta della carne, comprata dal macellaio di fiducia, che lo disossa e pulisce col camice bianco schizzato di porpora. Per riuscire a comprare il lombo carico di muscoli, devi capitare nel giorno giusto, all’ora giusta e devi pure star simpatica a chi te lo vende. Devi dimostrarti sicura ma non saccente, ossequiosa ma non leccapiedi. E poi c’è il tempo, l’alleato della buona cucina. Il tempo e la temperatura. Non bisogna mai aver fretta di portar in tavola l’arrosto. Bisogna scaldarlo e raffreddarlo per mantenere il miglior sapore. L’arte dell’arrosto è l’arte delle mogli: una catena strategica di temperature e sapori, una tortuosa ricetta dove se fai quel che ti salta in mente, rischi di bruciare tutto.
Elsa quella domenica non aveva alcuna voglia di cucinare. La faccia di Rossana, paonazza sotto le penne tremolanti del cappello, le era ancora davanti agli occhi. Capiva che l’aveva fatto solo per il suo bene, e dagli occhi gonfi e umidi si vedeva che aveva passato la notte in bianco, indecisa se dirglielo o meno. Ma di certe cose si parla solo quando si hanno le prove.
L’emulsione di olio e erbette era ormai pronta. L’aveva lasciata a riposare più del dovuto, smarrita nei voli di rondine della primavera appena iniziata. Pensò che quest’anno avrebbe dovuto cambiare le tende. Si tolse la fede e gli anelli e iniziò ad immergere il pezzo di carne nell’olio saporito. La carne fredda al contatto con l’olio le scivolava come fosse ancora viva. Aveva provato, un tempo, a diventare vegetariana. Un’amica veterinaria le raccontò di come gli animali, prima di essere uccisi, vengono invasi dalla paura. La paura di morire scatena in loro una tempesta di ormoni: il terrore scorre nelle arterie e nelle viscere e noi, le disse l’amica, “ci mangiamo la loro paura”. Non era facile, però, giustificarsi durante le cene con gli amici. “No, lei non mangia carne” diceva il marito sorridendo, “è diventata vegetariana”. Per scherno o per autentica curiosità, si trovava a dover rispondere a chi le chiedeva se fosse una decisione dettata dal senso etico o da problemi di salute e, in questo caso, l’interlocutore le guardava il giro vita troppo abbondante o il sottogola gonfio.
Durante le numerose cene a cui era costretta a presenziare dato il ruolo del marito, si accorgeva sempre di come si è destinati a diventare ciò che si era prima. Adolescente goffa e scontenta, persa nei mondi sublimi delle letture e della vita selvaggia, non era mai piaciuta davvero a nessuno. E nonostante si fosse sforzata a trovare un marito agiato con un’ottima posizione sociale, bastava uno sguardo ambiguo a farla ritornare la ragazzina sconfitta di allora. Senza poter scappare a piedi nudi a raccogliere rane e fichi, era costretta a star seduta e sorridere, come una bestia che secerna paura.
Ora era venuto il momento di legare il pezzo di carne con lo spago. Doveva strizzare quell’ammasso rosso vivo per mantenerlo unito nel caldo del forno. In fondo era il compito di una moglie tenere insieme i pezzi anche in mezzo all’inferno. Mentre cercava lo spago nel cassetto della cucina, rivedeva gli occhi gonfi di Rossana, che parlavano ancor prima della sua bocca. “Ho sentito una cosa che spero non sia vera”, aveva esordito.
Il marito di Elsa era a capo di un’azienda produttrice di tondini di ferro per cemento armato. Da sempre faceva parte del mondo del volontariato, era una figura fondamentale in parrocchia e nelle associazioni ricreative. Ogni tanto mostrava vecchie foto ai nipoti raccontando infinite storie, dai tempi dei calzoncini corti da capo cannoniere, fino al grembiule unto di grasso da chef esperto delle sagre. Lui ed Elsa si erano conosciuti durante una festa di paese. Aveva fatto molto per la comunità, godeva del rispetto di tutti. Da qualche anno allenava la nascente squadra di calcio femminile. Si trattava di un esperimento interessante, ne avevano parlato pure i giornali locali. Le ragazze andavano dai 13 ai 16 anni e avevano aderito in molte. Praticare uno sport che è appannaggio maschile dava loro una sensazione di rivincita e libertà.
Elsa trovò lo spago da arrotolare attorno al pezzo di maiale profumato. Rossana era capitata a casa sua di buon mattino, mentre il marito era alla partita con le ragazze. Senza tanti preamboli, accaldata e gonfia, Rossana le aveva confidato quel che si diceva in giro. Alcune giocatrici parlavano di atteggiamenti non proprio consoni da parte del mister, come battute ambigue e pretese strane. Dapprima Elsa rise. Quando suo marito iniziò ad allenare la squadra lo mise in guardia sulla cattiveria della gente, visto i tempi che corrono. Gli disse di stare sempre attento e di evitare di passar troppo tempo solo con le giocatrici. Lui sghignazzò, considerando un’infamia simile qualcosa di irreale. Quelle erano ragazzine che aveva visto nascere e crescere insieme ai nipoti. I genitori le mandavano da lui per dar loro un’educazione solida, tanto che molte erano alunne problematiche, tendenti all’indisciplina. Se dapprima l’insinuazione di Elsa lo fece sorridere, poi finì per irritarlo. Il fatto che sua moglie pensasse una cosa simile lo imbarazzava. Nonostante Elsa cercò di ripetergli che non era un sospetto bensì un rischio a cui si esponeva dato i tempi che corrono, lui non volle sentire più nulla. Si rinchiuse nella taverna tra vecchi vinili e ci rimase fino al mattino.
Quando Elsa disse a Rossana che stava insinuando cose gravi e che almeno avrebbe dovuto avere delle prove, l’amica rovistò nella borsa e tirò fuori il telefonino. La mamma di una ragazzina le aveva inviato la conversazione tra lei e il mister. La ragazzina era il capitano della squadra e gli aveva mandato una foto con le amiche mentre prendevano un gelato dopo la vittoria. Suo marito aveva scritto una cosa del tipo “non mangiate troppo gelato altrimenti ingrassate le vostre belle gambette”. Da lì in poi la chat continuava, ma Elsa ormai non capiva più nulla. Cacciò Rossana, o forse la ringraziò, non ricordava bene. Era certa di averla accompagnata alla porta, girando la doppia mandata e appoggiando le spalle al legno, mentre lo scacciapensieri mandava un infinito tintinnio. Guardò verso la cucina e vide la carne rossa che aveva tolto dal frigo per far l’arrosto. La carne, perché la carne era così importante? La gente non nota quanti libri hai letto o quanti sacrifici hai fatto nella vita: osservano solo se ingrassi o dimagrisci e da lì traggono denigrazioni o complimenti. Le donne non hanno quasi mai tempo di rendersi conto della loro bellezza. Nel momento in cui inizi ad acquisire una certa consapevolezza del tuo valore, quando hai un bagaglio interessante di gioie e sofferenze, allora il tuo corpo inizia a sfiorire e non ti guarda più nessuno. Sono considerazioni che paiono luoghi comuni ritriti; eppure con l’avanzar degli anni – quando il futuro si accorcia donandoti un’estrema capacità di sintesi – scopri che sono la Verità.
Anche se non li aveva mai davvero cercati, l’esistenza di Elsa ruotava attorno agli uomini. Il sesso maschile era per lei come il perno di un mappamondo. In principio era il padre, burbero e saggio, a dettar le leggi dell’universo, ad insegnarle cosa era giusto e cosa era sbagliato. Dalla madre aveva imparato il silenzio e la pazienza. Tentò, dopo gli anni di studio, di essere economicamente indipendente. Sapeva che la vera emancipazione femminile passava per la gestione di un conto corrente tutto suo. Prima di trovare un buon marito, cercò un ottimo lavoro. L’incontro con un imprenditore di successo, però, le fece cambiar sentiero. Non le dispiaceva, in fondo, la vita agiata e invidiata. Le vacanze, le stoffe pregiate, i ristoranti rinomati. Era fedele e sicura, attenta ai figli e alla casa. Come poteva pensare che due giovani cosce avrebbero frantumato quella cattedrale luminosa? Aveva stretto l’arrosto così forte che i rivoli di sangue schizzarono sul piano cottura. L’odore ferruginoso e selvaggio la fece quasi lacrimare.
Quanto valeva davvero l’arrosto di quella domenica? Fece rosolare una noce di burro sulla pirofila e per insaporire la carne. Al contatto col calore, il pezzo di bestia perdeva acqua rosa mandando un sibilo confuso di antiche grida. Eccola, pensò, la memoria della paura. Il seguito lo conosceva già. Era preparata ai risolini delle amiche durante la messa, mentre l’andirivieni del ventaglio mostrava ad intermittenza le bocche cattive. Era un po’ meno preparata alla preoccupazione dei familiari, la vergogna dei figli. Si trattava di una di quelle notizie che sarebbe girata per le tavole imbandite e i caffè presi al volo. Lei, oggetto di scherno per colpa di un maschio che non aveva saputo frenar le voglie. Riflettere e rimuginare sui fatti della vita era per lei una prassi conosciuta. Sapeva convivere coi pensieri fissi e ci sarebbe riuscita anche stavolta. Pur avendo una vita quieta e abitudinaria, la sua mente non era mai ferma. Le femmine che godono di molto tempo libero spesso lo impiegano per raccogliere i fatti, setacciarli ossessivamente e ridurli a concetti astratti fragilissimi, destinati a crollare in pochi secondi di fronte ad accadimenti inaspettati. Se avesse provato ad estendere i pensieri inutili come un filo di lana, avrebbe raggiunto la luna. Il tempo trascorso sulle elucubrazioni solitarie erano giorni buttati via.
Ora, invece, ragionare sensatamente le risultava quasi impossibile. Sbucciò lo spicchio d’aglio e mezzo scalogno. Poi prese la pirofila e si guardò sul vetro del forno. Immaginò come sarebbe stata la vita senza di lui. Quante esperienze avrebbe potuto fare, senza i figli, i vincoli familiari. Una donna sola, libera, piena di opportunità. Ma poi pensò che non avrebbe fatto comunque nulla di importante. La ragazzina goffa e timida in cerca di rane e fichi sarebbe sempre riapparsa, a ricordarle che il nostro destino è segnato nelle pieghe casuali del DNA, nei difetti del fisico, nei vizi del sistema endocrino. Carne che tenta di raggiunger le stelle e al minimo malanno interrompe il sogno di gloria. Con quella faccia, con quel corpo, dove sarebbe andata? Era ossessionata dall’estetica che, fieramente, teneva lontano, con un istinto di repulsione originato da un’inconsapevole desiderio. Ipotizzava di valere quanto la sua avvenenza, cioè nulla. E mentre l’arrosto imbiondiva sotto un ramo di rosmarino sempre più scuro, pensò che in fondo nutriva un po’ di invidia nei confronti di quelle ragazzine, belle come lei non era mai stata, desiderate dal marito più di lei, senza aver fatto nessun sacrificio, nessuna rinuncia, nemmeno un arrosto.
Puntò il timer. Il tempo, il tempo devastante che lei aveva perso a pensar l’inutile. Il tempo ora le pareva una vampata divorante. Si parlava di anni, di decenni, quasi di mezzo secolo. In mezzo secolo potevano accadere un sacco di cose. A lei non era accaduto nulla di rilevante, questa era la verità. Spesso la gente appare felice anche se non lo è. Ma il dubbio se sia meglio una felicità finta o un’insoddisfazione vera rimaneva sempre vivo e correva nelle sue vene: la gonfiava di rabbia inespressa, di cortisolo che la ingrassava e non le faceva più chiuder le gonne, mettere il bikini, sognare un appuntamento galante. Il cibo, sempre a pensare a cosa cucinare, a come far ingrassare quella bestia che si trovava in casa. Un maschio stupido, come tutti i maschi, perso tra corpi attraenti, immune alle gioie pure, autentiche.
Il forno strillò. Pareva lo avessero sentito anche le rondini, scappate in capovolte azzurre. Prese il coltello. Tagliò l’arrosto a fettine. Fette fine, sempre più fine, affondando la lama in quel cadavere ricomposto e profumato, la bestia messa a nuovo. Lo cosparse di grasso, lo mise nel piatto d’argento. Pensò che la peggior vendetta verso suo marito sarebbe stata tenerselo con sé. Inasprirlo con battute violente, rifiutarlo ogni volta che a letto avvicinava un piede al suo, continuare a cucinare bene e odiarlo ancor meglio. Non valeva la pena ribellarsi a quello stato di tedio e profondo disamore. Era comunque tutto ciò che aveva, tutto ciò che aveva saputo costruire. Avrebbe combattuto come hanno fatto per secoli le donne in lotta con gli uomini cattivi: essere sempre presenti, non mollarli mai, restare fino alla morte attaccate a loro come la disgrazia più grande. Era comunque suo.
Quando tornò, senza lavarsi le mani, lui prese una fetta d’arrosto e la trangugiò. “Sei sempre avara di sale”, disse. E lei sorrise.