L’ULTIMO ACCESSO

I

La cena della sera prima gli era rimasta sullo stomaco. Nel cantiere della cava c’era un unico bagno chimico, un Sebac blu che svettava tra la polvere e le voragini aperte dagli escavatori. La luce obliqua del mattino tentava di scalfire un ammasso di nubi sporche e sospese. Quel giorno il cielo sembrava di marmo. Con gli occhi semichiusi a causa della notte in bianco e per la luce insolente come un neon naturale, si sistemava il caschetto e tentava di aprire le carte del progetto. Ogni volta che spiegava il rotolo, un soffio di vento freddo venuto da chissà dove rovesciava le pagine e gli provocava una fitta al basso ventre. Bestemmiò. “Non stai bene oggi?” gli chiese il collega. “Non molto”, rispose, “ma entro stasera dobbiamo concludere”. Poi gli raccontò della cena dai suoceri, dei piatti troppo conditi, della pressione subita per portare a termine quel progetto incancrenito. Gli squillò il telefono. Era lei, come al solito. Rispose frettolosamente, le aveva detto di non disturbarlo durante il lavoro. Interruppe subito la chiamata. Irritato dal vento, da quella voce da usignolo ferito e da uno spasmo intestinale che lo piegava in due, lanciò il telefono sulla terra rosa.

In quel momento il cielo si oscurò. Sul palco avorio di una giornata che preannunciava pioggia, calò il sipario. Riuscì ad udire un tonfo e un grido: forse era il suo. La guancia toccò i sassolini della cava, simili a minuscole formiche pronte a mordergli la faccia. Il casco giallo, balzato a un metro dalla sua testa, sembrava un sole caduto. Temeva di aver bagnato i pantaloni. Probabilmente era morto oppure era arrivata la fine del mondo. Ricordò la prima volta in cui sentì parlare dell’Apocalisse. Aveva nove anni. La catechista, con la sadica foga di un drago educato, raccontò di un trono in cui sedeva un dio di pietra. Poi la narrazione fu un avvicendarsi di agnelli e leoni, cavalieri alati, terremoti, stelle gettate sulle terra come i coriandoli a Carnevale. Forse la storia sghemba e violenta dell’umanità era giunta al capolinea. Gli venne quasi da ridere. Pensa te, si disse, crepare cullato dall’immagine di una signora bigotta e appesantita che spaventa i ragazzini con la favola di una vendetta divina.

Gli occhi erano l’unica parte del corpo che riusciva ancora a muovere. Steso come un verme, guardava un esercito di scarpe antinfortunistiche arrivare in suo soccorso. Decine di punte di ferro alzavano vortici rosa e sentiva gridare il suo nome dalle viscere della cava. Lasciò ruzzolare le palpebre tentando di proteggersi dalla polvere e dal dolore. Provava in tutti i modi a scacciare la visione della catechista che sputava la descrizione dell’Apocalisse, mentre il petto gonfio lasciava scintillare un Cristo dorato. Era certo di essere morto.

II

Quando era in turno, Lea teneva il telefono spento. Mentre riassestava la terapia contando pasticche e gocce, udì il passo pesante della caposala. Gli zoccoli blu si arrestarono sulla porta della medicheria. Il volto della caposala era bianco, pareva avesse pianto.  “Tuo marito”, disse quasi senza fiato, “sta arrivando in codice rosso. Si è staccato un pezzo di roccia giù alla cava, non so come sia successo. Sono riusciti a tirarlo fuori, ma ci è voluto molto tempo. Non ha mai ripreso conoscenza”. Con una mossa istintiva, Lea chiuse le boccette e iniziò a sistemarle nell’armadio. La caposala la prese per un braccio. “Tuo marito, Lea, non sappiamo nemmeno se ci arriva fino a qua, hai capito?”. Fece un cenno col capo, ma le parole non le uscivano. Era come se tutto ciò non stesse succedendo a lei. Venne accompagnata sul tetto dell’ospedale, stava atterrando l’elisoccorso. Tirava un vento freddissimo. Pensò a lui, al suo corpo appiattito sotto il marmo liscio, a cosa aveva sentito. Il sole impallidì dietro le ali di un calabrone d’acciaio che rombava sbuffando fumo. Lì dentro c’era la persona più importante della sua vita.

Dopo ore di sala operatoria, le condizioni erano ancora disperate. Il tempo era un susseguirsi di caffè e conforti, nervose passeggiate di pochi metri, attese interrotte da flash di presagi. “Rimani a casa se stai poco bene”, gli aveva detto quella mattina, “tanto oggi danno pioggia, dovresti sospendere comunque”. Invece aveva ingoiato una pastiglia ed era corso via. Si guardò le mani sporche del talco dei guanti e vide avvicinarsi un paio di scarpe verdi. “È vivo, Lea” le disse il chirurgo “ma è ancora grave”. Tentò di illustrale le operazioni eseguite, ma lei perdeva il filo. La accompagnò fino al letto, la appoggiò alla poltrona, le strinse la spalla e le disse di chiamare per qualsiasi necessità. Poco dopo arrivò Gino, aveva ancora addosso la tuta da cantiere. La abbracciò e, senza riuscire a dire nulla, le mise in mano il cellulare impolverato del marito. Lei lo appoggiò sul comodino e finalmente riuscì a respirare: fino a quel momento l’aria le si bloccava in gola, come se uno stantuffo di disperazione impedisse al fiato di rimanere a galla.

Ora iniziava il travaglio dei bollettini medici e l’osservazione inquieta del corpo di lui, nell’attesa di un tremore, un lamento, una palpebra socchiusa. Pensò che doveva iniziare a chiamare familiari e amici. Prese il telefono dalla borsa: ci sarebbero volute ore per rispondere a tutti. Senza un valido motivo, controllò l’ultimo accesso del marito: ore 11.54, un minuto prima della tragedia. Lui era arrivato frantumato e irriconoscibile, mentre il suo cellulare riportava solo qualche graffio. Lo osservò come fosse un ospite indesiderato, mentre il bip dei monitor teneva la scena accesa. Notò sfondo dello schermo, una foto di loro due durante una gita a Verona. Che strano, lui non era tipo per queste cose. Una lacrima bagnò l’icona di whatsapp. Ci appoggiò il pollice, c’erano quindici messaggi non letti. Dieci erano foto spedite sul gruppo del cantiere:  il pezzo di marmo caduto, l’elicottero che arrivava, il caschetto ruzzolato sulla terra rosa. Le venne da vomitare. Poi lo sguardo cadde sui cinque messaggi non letti di un certa Agata. Erano stati scritti tutti quel giorno: “chiamami”, “chiamami”, “chiamami”, “chiamami!!!”, “chiamami, cazzo”. Forse era una collega della ditta, ma il primo messaggio era arrivato alle 9 e l’ultimo alle 13, non poteva essere all’oscuro dell’accaduto. Agata l’aveva pure chiamato alle 11 e 52, per circa 5 secondi. Non capiva. Fu distratta dal rumore dei passi della caposala che le portò l’ennesimo caffè. “Ci ho aggiunto qualche goccina” bisbigliò “così almeno riesci a dormire”. Avvicinando la bocca all’orecchio di Lea, notò la foto di lei e il marito a Verona. “Che belli!”, esclamò commossa, “vedrai che si aggiusta tutto”.

III

Quel giorno Agata continuava a guardare il telefono. Durante la riunione, il capo le lanciava continue occhiate. “Se hai qualche chiamata urgente da fare, puoi uscire un attimo” le urlò mentre i colleghi sghignazzavano. “Nulla di urgente”, rispose. L’ultimo accesso era stato alle 11.54, e ora erano le 15.30. Forse lui era davvero preso dal lavoro, sapeva che doveva concludere un affare importante, si era pure scusato per averla trascurata durante la settimana. I turni della moglie duravano dodici ore, quindi non poteva essere con lei. Due giorni prima aveva notato lo sfondo del suo telefono, la foto di loro due sorridentei davanti all’arena di Verona. “Guardala, la coppia felice” aveva commentato rabbiosa, ma lui non aveva risposto. Ogni volta che gli sbatteva sul muso la copla della sua infedeltà, lui la guardava con un’oscura traccia di compassione. Sembrava dirle “tu non puoi capire”. Eppure lei capiva eccome.

Ne aveva sentite di storie simili, diverse amiche erano cadute nelle trappole dei triangoli infelici e ne erano uscite con l’implacabile certezza che tutti gli uomini si comportassero da codardi egoisti. Nonostante gli attori e le attrici dei tradimenti fossero creature molto diverse tra loro, il copione era lo stesso. Le infedeltà si nutrivano delle medesime logiche: capitava di confondere la placida sicurezza coniugale con la noia, la profonda conoscenza dell’altro con un sentore di trascuratezza e, soprattutto, imperava l’idea che la felicità fosse sempre in un altrove proibito. I triangoli erano relazioni in cui l’autenticità delle passioni scoloriva se immersa nella miseria delle azioni bugiarde e dei vincoli insudiciati. Traditore e tradito finivano per dare il peggio di loro, provando per l’amore una certa pena. Le menti più accese erano consapevoli che l’innesco dell’infedeltà poco c’entrava con un problema di coppia: si trattava di una pulsione vitale, amara e antica; era l’istinto di sopravvivenza avvertito quando sentiamo il tempo scivolarci dalle dita. Solitamente quei disastri capitavano alla soglia dei quarant’anni.

Lui non le aveva promesso nulla, ma lei ci sperava comunque. Alla moglie aveva giurato amore eterno, eppure la tradiva, quindi tutto era ancora possibile. Non si rischia di finire un matrimonio per una storiella da poco, e in fondo lui era un uomo serio, sapeva cosa sarebbe stato giusto fare. L’opinione sul suo amante rifletteva l’altalena di un’onda: era impetuosa quando realizzava di avere a che fare con un bugiardo e diventava calma quando si ritirava nel mare dei baci e delle carezze, rese sincere da un’ingiusta clandestinità. Se la verità è qualcosa da scoprire, significa che il vero vive nei nascondigli, sotto spoglie mute. Si calmò e decise che per la prossima ora non avrebbe più controllato l’ultimo accesso e l’avrebbe lasciato in pace. Finalmente la riunione era finita. Andò a prendere un caffè alle macchinette, la giornata era ancora lunga. Mentre cercava le monete, i colleghi parlavano di un incidente accaduto alla cava. Dicevano che una lastra di marmo aveva investito il capocantiere.

IV

Si svegliò di soprassalto, immaginò di sentirlo urlare. Aveva dormito circa tre ore e aveva male ad una spalla. La poltrona era scomoda, si era rovesciato il bicchiere di caffè e lui sembrava un bambino malconcio che non dava alcun segno di miglioramento. Riprese in mano il suo telefono. Non l’aveva mai controllato fino ad ora e nel farlo provò una certa vergogna. Essere sposati non ci toglie il diritto di conservare una sfera segreta, pensò. Forse è proprio l’esistenza di angoli inviolati a garantire la stabilità di un rapporto, come le fondamenta di una casa, che anche se non si vedono ne reggono tutto il peso. Ma un segreto è diverso da una bugia, e il limite della decenza è qualcosa di inappuntabile.

Scorrendo tutte le applicazioni del cellulare, in pochi minuti scoprì che l’uomo con cui viveva da sette anni era uno sconosciuto. Lui spulciava con assidua regolarità il profilo delle sue ex, talvolta chattava con qualcuna di loro. Comprava su amazon libri sull’autostima, nonostante li avesse sempre reputati delle stronzate new age. Utilizzava frequentemente instagram postando foto con frasi rubate a filosofi e poeti: erano selfie filtrati, imbarazzanti nella loro ovvia irrealtà. La sera prima aveva cercato in rete un prodotto anticalvizie. L’ultima mail inviata era la richiesta di un preventivo ad un gioielliere specializzato in incisioni. Per accedere all’applicazione del conto corrente doveva inserire una password: provò con la data di nascita di lui e poi quella di lei, ma non funzionò. Meglio così, si disse. Quel piccolo aggeggio elettronico sapeva tutto di lui e lei invece non sapeva nulla. L’angolo inviolato destinato a tenere unita la loro relazione era in realtà una voragine in cui loro non si sarebbero mai più ritrovati.

La sua mente era un fiume in piena. La ragione annaspava nella tempesta d’odio che le montava dalle viscere. Era una situazione assurda: l’uomo che era la causa della sua furia versava in uno stato di totale incoscienza, stava lottando tra la vita e la morte e lei, la moglie, non era più convinta di tifare per la prima. Eppure anche andarsene così, nella pacifica convinzione di averla lasciata amata e felice, sarebbe stato un epilogo immeritato. Aprì di nuovo tutte le app, riguardò le foto, lesse i messaggi. Temeva e sperava di trovare qualcosa di peggio. Stava realizzando che era solo l’inizio della rovina: il tunnel dei pensieri opposti e contrastanti era troppo stretto per starci dentro senza impazzire. Sentiva le tempie infuocarsi come stritolate da una pressa rovente, quando nella penombra della stanza si affacciarono due tacchi frettolosi. “Tu devi essere Agata”, disse alla donna in controluce. “Vieni, accomodati pure”.

Federica Marangon Mi chiamo Federica Marangon e ho 32 anni. La letteratura è la mia passione: l’ho cercata in ogni luogo in cui ho vissuto e lavorato. Leggere mi aiuta a capire il mondo e ad accettarne la follia. Quando anche i libri non mi bastano, vado in bicicletta fino al mare o a camminare in montagna. E quando il meteo non lo permette, scrivo. Su di me ci sono sempre tante nuvole.

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