IL PASSATO DEL FUTURO: perché cerchiamo i nostri avi?
Al crepuscolo di una vita leggendaria, pure lei cedette alla seduzione della memoria. Voleva capire da dove giungeva il fascino sfrontato, l’inguaribile rabbia, l’amore per le parole. Tra gli appunti della ricerca vi è addirittura la supplica di uno studioso di Boston, contattato per la ricostruzione genealogica: si acconti di ciò che ho trovato, le scrive, non posso sapere come si chiamava la nave che faceva la spola tra Plyamouth e Livorno.
Consumata dall’alieno (così chiamava il cancro), rintanata in un appartamento a New York come orsa in un perenne inverno, Oriana Fallaci dedicò più di 800 pagine alla ricostruzione delle origini della sua famiglia. “Un cappello pieno di ciliegie” è la monumentale opera postuma in cui viaggia nel tempo e ricostruisce le sue origine dal 1700. Nel momento la clessidra dell’esistenza colava rapida, cercò nel passato “le risposte con le quale sarebbe giusto morire. Perché fossi nata, perché fossi vissuta, e chi o che cosa avesse plasmato il mosaico che da un lontano giorno d’estate costituiva il mio Io”.
Ora la genealogia va di moda e non è più il vezzo di nobili presi dal convulso desiderio di dimostrare la purezza del loro ramo. La tendenza è frutto della grande disponibilità delle risorse web (qui alcune indicazioni utili per rivolgersi agli archivi) e dall’utilizzo di social network con i quali cercare persone lontanissime. Già qualche anno fa, spendendo un centinaio di euro, potevi comprare una pergamena attestanti le gloriose origini del tuo cognome e lo stemma araldico miniato. Perfino i miei avi sono risultati gente illustri, nonostante il mio cognome “Marangon” in dialetto veneto significhi “falegname”.
Forse queste ricerche truffaldine ci hanno costretti a raffinare la curiosità della ricerca, pretendendo prove attendibili e maggior serietà. È comparso addirittura il “genealogical traveller”, un ricercatore itinerante che insegue la storia di una famiglia nei luoghi in cui si è sviluppata. Si tratta di una pratica destinata ad obbligare gli enti pubblici a tenere un po’ più in ordine i preziosi archivi fino ad ora poco frequentati, il che è un’ottima cosa.
Negli Stati Uniti si è già qualche passo avanti. Nel 2003 un team israeliano di appassionati di genealogia fonda il social network “My Heritage” e nel 2008 riceve un finanziamento di 15 milioni di dollari che gli permette di acquisire “Kindo”, una piattaforma per la ricostruzione di alberi genealogici europea. Il servizio principale è la creazione di profili online di famiglia in cui condividere foto e video, annotare ricorrenze e taggare i volti dei parenti che compaiono nelle foto. Si può addirittura confrontare il proprio volto con quelli delle celebrità o capire se siamo più simili a mamma o papà. Il motore di ricerca “metasearche”, che acquisisce il database di My Heritage, può interrogarne altri 1526, linkando così più parentele possibili.
REGALAMI IL TEST DEL DNA
La vera novità, però, è la possibilità di far analizzare il proprio DNA rivelando informazioni sulla storia familiare e sulle origini genetiche. “Il corredo – si legge nel sito italiano – consiste in un tampone buccale di semplice uso (non sono richiesti sangue o saliva) e occorrono solo 3 minuti per utilizzarlo. Successivamente, spedisci per posta il campione di laboratorio ed entro 3-4 settimane sarai invitato a consultare i tuoi risulati on-line”.
I risultati comprendono una “stima di etnia”, ovvero una ripartizione percentuale dell’ascendenza che indica le origini dei tuoi antenati in base a 42 etnie, che comprendono la giapponese, l’italiana, l’ebraica, la balcanica e molte altre ancora. La percentuale superiore al 4% indica un’alta probabilità che un nostro discendente fosse di quella etnia. Potremmo così scoprire di aver avuto trisavoli albanesi o scandinavi, africani o orientali che nel corso dei secoli si sono spostati nel mondo lasciando traccia nel codice del nostro patrimonio cellulare. Occorre dire che l’indagine è comunque abbozzata: per le conferme è necessaria una ricerca storico-archivista complessa e laboriosa.
Ad oggi My Heritage conta circa 30 milioni di utenti. Solo nel 2017 ha venduto un milione di kit, incassando 133 milioni di dollari. Gli utenti in Italia sono 1,4 milioni. Per chi non volesse addentrarsi nella scoperta del proprio codice genetico, il sito offre la possibilità di costruire il proprio albero genealogico scaricando il software “Family Tree Builder”. Inserendo compleanni, decessi e matrimoni dei propri parenti, i luoghi in cui hanno vissuto e le loro passioni, il programma crea grafici che evidenziano probabili discendenti confrontando gli utenti del database e chiedendo poi una conferma sulla corrispondenza.
Il DNA fu una scoperta del 1953 di Watson e Crick, che nel 1962 vinsero il premio Nobel. Solo nel 1984 si comprese la possibilità di individuare una persona a partire dalle caratteristiche irripetibili dai geni lasciati da tracce di saliva, briciole di pelle, capelli caduti. Nel 1988, per la prima volta, la prova del DNA venne usato per incriminare un omicida. In seguito ha aiutato a risolvere enigmi storici, scoprendo che il presidente Thomas Jefferson era il padre dei figli della sua schiava o che la donna di Hitler, Eva Braun, in un capello della sua spazzola nascondeva una sequenza specifica fortemente associata agli ebrei askenaziti tedeschi.
MA È TUTTO VERO? I geni dei geni.
Alcuni detrattori hanno soprannominato My Heritage “il business degli sputi” , sollevando consistenti dubbi non solo sull’affidabilità dei riscontri ma anche sulla protezione della privacy sui dati genetici. Dal canto suo, i CEO dell’azienda hanno assicurato di prendere ogni precauzione per proteggere le informazioni personali, dandole in licenza a terzi esclusivamente dietro consenso dell’interessato e impiegando livelli di crittografia sofisticata per proteggerne l’archiviazione.
Gli scienziati ci mettono in guardia anche su un altro rischio, ovvero la presunta possibilità di prevedere malattie ereditarie trasmissibili ai figli. In un intervento del Corriere della Sera, il genetista di fama mondiale Bruno Dallapiccola avverte:
“Dopo 15 anni di lavoro sui geni conosciamo sì e no il 15% di quello che governa l’ereditarietà; questo significa che l’85% è ancora tutto da scoprire”. Manca dunque una base scientifica reale che permetta di affidarsi ai test e nelle analisi via rete manca la possibilità di considerare la componente ambientale, fondamentale per non trarre conclusioni affrettate o proprio sbagliate. “Se, per esempio – continua il Prof. Dallapiccola – un soggetto ha il carattere dell’obesità ma per sua natura mangia poco, non sarà mai obeso. Attraverso autoanalisi superficiali rischiamo di diventare malati immaginari di patologie che non riscontreremo mai”.
Oggi però sappiamo che non tutti i difetti vengono per nuocere: nel corso della storia, alcune difformità sono state dei doni per pochi fortunati. È il caso di Nicolò Paganini, accusato di aver fatto un patto col diavolo per l’incredibile talento di violinista. Come racconta Sam Kean in “Il pollice del violinista“, Paganini era venuto al mondo con un’anomalia genetica che gli aveva donato dita straordinariamente flessibili. Tuttavia, fondamentale fu l’ambiente in cui crebbe, perché furono delle scelte di vita a renderlo un virtuoso e non solo il suo codice.
La natura ci ha reso tutti uguali e tutti diversi, ma siamo noi a decretare le regole del gioco.
Federica Marangon