Siamo migliori delle nostre bacheche: “I Malavoglia” e i leoni da tastiera nella “Facebook arena”

“TOC TOC QUAND’E’ L’ESIGLIO TUTTIACASA”: è il buongiorno di un membro di un gruppo Facebook di paese, quelli tipo “Sei di Roma Se”, per capirci, le piazze cibernetiche. Sono gruppi nati per scambiare foto d’epoca, promuovere iniziative, cercare cani raminghi. In poco tempo sono diventati arene sregolate in cui si grida il disprezzo verso i vicini e le amministrazioni. Spesso ci si alza al mattino e si comincia ad odiare. I bersagli prediletti sono rifiuti abbandonati, i velox e gli immigrati. Coi cani siamo clementi, invece. Battiamo furenti gli indici sulla tastiera scordando le doppie, le virgole, SCrivVEndo FraSI CoSì, simili a cattedrali in rovina, mezze su e mezze giù. Siamo i leoni da tastiera, poco importa cosa e come scriviamo, ma chi legge. E, potenzialmente, legge l’universo intero: il fornaio e Donald Trump, la commessa e Lady Gaga. Questa vertigine planetaria ci disorienta. L’assoluta libertà del dire ci dona il diritto di dire la prima cosa che ci passa per la testa. Ma in nessun essere vivente quello che passa per la testa è sempre cosa buona e giusta, anzi.
Talvolta scopri che il vicino è un razzista guerrafondaio. Ma quando vai a chiedergli un pacco di zucchero non lo trovi col kalashnikov e la cavalcata delle valchirie di sottofondo: è lì in pianelle che gioca a Risiko con i figli. L’odio che ci permette Facebook è un odio gratuito (nel senso che non lo si paga), rapido (basta un clic di invio per i commenti) e impunito (gli admin bloccano qualcuno solo se puzza di terrorista). Il limite tra la sacra libertà di parola e la doverosa censura verso espressioni che invitano alla violenza e denigrano la dignità è tuttora argomento di dibattito. L’hate speech, il discorso d’odio, è la deriva sfortunata della libertà di espressione che difende “la tolleranza degli intolleranti”. Uno degli assunti che rende la libertà di parola intoccabile è che fin che si parla, forse, non si agisce e ci si sfoga. Inoltre, fin che c’è dibattito, c’è speranza. Il controdiscorso – procedimento che si vede di frequente nei gruppi di paese – potrebbe generare virtuosismi, e seppur il confronto si realizzi con toni a tratti indecorosi, comunque rappresenta un utile scambio di idee. La vera intelligenza non teme la libertà, ma la governa con discrezione.

A parte l’odio, facebook è un mezzo che usiamo per farci i fatti altrui e per lanciare frecciatine ai nostri conoscenti (perché, alla fine, poco importa che ci legga Donald Trump). Tali esigenze non sono giunte col progresso informatico: sono sempre esistite. Mi viene in mente la finestra della Zuppida, la donna più pettegola di Aci Trezza, ne “I Malavoglia” di Verga. La comare è una delle voci che compongono questo romanzo collettivo, in cui il narratore è un paese che non salva nessuno, perché le disgrazie che ti capitano te le cerchi, perché ciò che si bisbiglia ti può rovinare, e il buon nome in piazza è l’unica cosa che conta davvero.

Verga nel 1872, a 32 anni, si era trasferito a Milano, impero dell’editoria e della bella vita. Ci vivrà per vent’anni, per poi tornare a Catania e abitarvi fino alla morte. Appena giunto nella metropoli decide di fare della Sicilia il microcosmo della sua narrativa. Il sud è un posto mitico, e come tale lo si ama solo quando si è altrove. La Sicilia de “I Malavoglia” è un mondo già disgregato dalla “fiumana del progresso” che travolge la famiglia di Padron ‘Ntoni provocando le più terribili disgrazie. Tutto inizia con il naufragio della “Provvidenza”, la barca che trasportava un carico di lupini comprati a credito. La speculazione finanziaria è il primo passo che la famiglia di pescatori compie nella strada verso la modernità, ed è quello fatale. In seguito ogni membro del clan fallisce: un nipote muore nella battaglia di Lissa, un altro si dà al contrabbando e alla vita dissipata finendo in galera, Lia scappa a Catania dove diventa una prostituta. Fino ad allora l’etica antica della fatica e del pudore aveva relegato la famiglia in un universo duro e sommesso, ma comunque saldo e sereno, pulito. Lo stesso fenomeno è accaduto nei paesi di provincia quando il progresso ha di fatto sostituito il pettegolezzo di piazza con l’attacco nei social network, rendendolo però più pericoloso e feroce. In alcuni casi Facebook ha rotto amicizie, compromesso matrimoni e, purtroppo, ha reso la vita impossibile a persone già fragili e indifese. Perché una voce sparsa tra poche case ferisce, ma un’immagine umiliante con diffusione potenzialmente planetaria può uccidere.

Come alla Zuppidda, ci piace sbirciare dalla finestra e ci piace farci invidiare le nostre vite e la nostra felicità, magari fake, finta. Gli altri sono i nostri narratori; e quando diciamo che la loro opinione non conta, lo diciamo proprio a loro, smentendoci in maniera quasi ridicola. Anche se non temi di dire ciò che pensi, chiediti se qualcuno abbia veramente necessità della tua opinione. Alda Merini scriveva: “mi sveglio sempre in forma e mi deformo attraverso gli altri”. È un po’ quello che ci accade ogni volta che clicchiamo sulla F di Zuckerberg. Ma nel gioco dei ruoli, questi scivoloni sono umani e quindi perdonabili; anche perché, alla fine, le conseguenze di ciò che diciamo le paghiamo sempre e possiamo uscirne più consapevoli. Saremo sempre migliori delle nostre bacheche.

 

Federica Marangon Mi chiamo Federica Marangon e ho 32 anni. La letteratura è la mia passione: l’ho cercata in ogni luogo in cui ho vissuto e lavorato. Leggere mi aiuta a capire il mondo e ad accettarne la follia. Quando anche i libri non mi bastano, vado in bicicletta fino al mare o a camminare in montagna. E quando il meteo non lo permette, scrivo. Su di me ci sono sempre tante nuvole.

3 thoughts on “Siamo migliori delle nostre bacheche: “I Malavoglia” e i leoni da tastiera nella “Facebook arena”

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *