SINDROME POLESINE
Bisognerebbe provare quella sensazione. Fermare la macchina di notte, nella nebbia, sui fianchi di una strada dissestata di cui non si fede la fine. Scendere, lasciare su le chiavi, chi mai potrà arrivare. Sperimentare, senza che nessuno lo sappia, una strana prova di vuoto. Poi porsi la domanda che ha tormentato la fisica per millenni: “perché esiste qualcosa anziché il nulla?”.
È quello che ti chiedi quando percorri in silenzio la spina dorsale del Polesine. Ci sono chilometri di niente, perché anche il niente a suo modo c’è. E cosa potrebbe esserci, d’altro canto? Le scritte “vendesi” sbiadiscono sulle persiane rattoppate di alberghi nati tristi, nelle barbe arrugginite dei leoni sui cancelli e tra gli ammassi ingombranti dei zuccherifici abbandonati. Nella nebbia è tutto un vociare di aria che entra ed esce dalla finestre rotte. Chissà cosa rimane, lì dentro, del lavoro di centinaia di uomini; se resta il DNA rattrappito nel sudore di chi ha cresciuto famiglie con le barbabietole, perché strana è la natura quando in questa terra scura riesce a far nascere un frutto dolce.
Nelle notti di nebbia si respira acqua. L’acqua è dappertutto, anche nell’aria. L’alba dell’inverno, ma anche dell’estate, si sveglia col fiato corto. È una landa senza salite, il Polesine, ma lo stesso ci si affanna. Ci sono mattine bellissime, tutte rosa, e rosa si fa il brodo delle paludi che interrompono lo scorrere dei corsi di asfalto e polvere. Un canneto come tappeto di benvenuto e poi sconfinano i bacini, gli scoli, le valli senza onde. Quando il ghiaccio vince la nebbia e il sole vince su tutto, le giornate si fanno di vetro. Il mondo sembra nascere ad ogni aurora, ancora tutto pulito, ancora tutto giusto. E lì le dimensioni si confondo in giochi di specchi d’acqua, dove non esiste un su e un giù: il volo caciarone dei gabbiani è nel cielo ma anche nelle viscere e i salici brillano d’argento verso le stelle e sull’alveo lento si bagnano. Vi scorrono tronchi, poi fango, poi reti abbandonate, poi guarda, oh! Una ciabatta, una sola, che non sai come possa esser finita dentro il fiume, forse per colpa di un piede distratto, rincasato scalzo.
Il Polesine è crudele. Tutto quello che gli prendi, lo paghi due volte. La prima con la fatica di vivere in un universo di durezza progettato per non aver uomini fra i piedi. La seconda per riavere indietro ciò che ti toglie. Costruisci argini portando carriole di terra, invecchiando nei solchi dei campi, scrivendo destini di stenti sui calli dei palmi. Poi una notte lo scirocco soffia sul mare, ingrossa il fiume che rompe le roccaforti di sabbia e butta giù tutto. Avveleni le zolle per trarne il massimo profitto e allora le nuvole spariscono, le zolle diventano marmo bianco e, nella terra d’acqua, per contrappasso, le piante crepano di sete. Anche le specie marine si ribellano quando chiedi loro un sacrificio non tollerato dalla legge della catena alimentare: un esercito di nuovi predatori combatte la pesca sregolata, mangiando quello che vorremmo mangiare noi; oppure silenziosi microrganismi – coordinati da una strategia di correnti – sballano l’ecosistema e riassestano i rapporti di forza che l’uomo crede di domare.
Si punta allora sul turismo, senza sapere bene dove parare. I giovani vogliono la movida, stufi della piana noia di questi posti, ma non ha senso diventare la copia malriuscita di Rimini. Gli stranieri vogliono un’oasi di pace in cui contemplare i viaggi intercontinentali dei fratini, ma non ci vengono se la torretta del birdwatching cresce vicina allo strobo di una disco. E così, come un padre senza talento, il turismo finisce per non accontentare nessuno. Anzi, diventa una caricatura di se stesso quando nei sentieri vaporosi delle pinete, tra i cartelli che raccontano storie di rospi e arbusti, inciampi su cicche e fazzolettini, resti di amori pieni di fretta.
Il fatto è che i polesani non amano il Polesine. Quando da bambino ti portano in giro per i musei della bonifica e dei mestieri perduti, senti che non puoi contemplare una vita bestemmiata dai tuoi nonni, dai tuoi padri, patita da donne cresciute all’ombra delle preghiere, chine nell’umida prigione delle risaie, tra canti scordati, costrette a coltivare radicchio e non rose, che mica si possono mettere sul piatto.
Noi siamo poco inclini a cedere alle sabbie mobili della retorica. Ci piace costruirci il condominio nella desolazione di Santa Giulia, comprarci il SUV per sfrecciare vicino alle ciclabili regalate da fondi europei e lasciate a soffocare tra erbe cattive, appiccicarci di crema accalcati su pochi metri di spiaggia lasciando chilometri di battigia solitari. Ci piace dire che, appena potremo, ce ne andremo via. Quale fortuna cercare qui, in questo pozzo dove raccogli desideri se poi ti scivolano dalle mani, tornado nel buio da cui sono nati?
Sarà che l’esperimento del vuoto in noi si riempie di rabbia. Camminiamo su un suolo che cede, nati sotto il livello del mare. Un cuscinetto scavato dall’estrazione esagerata del metano, un’irrimediabile golena in cui ogni giorno tutto quello che ci siamo conquistati potrebbe esserci strappato via. È un presagio che non ti abbandona mai, si infila nelle valige dei tuoi addii verso la city, il lavoro, il tailleur, il futuro. Ti senti sempre un po’ da meno, perché nessun riscatto ti toglie tutto quel lezzo di mitili abbandonati all’afa, l’odore di una fine che non ha mai conosciuto la gloria di una possibilità. Mi sono sempre chiesta perché tanti dei nostri vecchi non se ne sono andati via, scegliendo di rimanere, truci e incazzati verso un’esistenza subita e mai scelta. Quasi se la loro infelicità fosse una pena da scontare per le colpe di altri, ma di chi, poi? Della forza delle maree, della sabbia, della nebbia? È un vizio tutto umano riempire il vuoto di qualcosa, fosse anche solo il senso acuto di un’ingiustizia di cui non si cerca nemmeno l’autore.
Eppure esiste un momento in cui quest’ansia si placa e zoppica una pace antica. Avviene poco prima del tramonto, quando gli sciami accaldati di zanzare sono ancora spossati e la luce, che qui scende retta come un filo a piombo senza concedere il lusso dell’ombra, si fa meno violenta. È l’ora d’oro, l’ora in cui le fascine attorcigliate ai piedi dei pioppi prendono il coloro del fuoco senza ardere. Il volo degli stormi si fa muto e, nei giorni più fortunati, sulle pozze arrossiscono in bilico i fenicotteri. Il mare mormora, le strade sanno di sale e fieno. Iniziano ad accendersi le finestre, si pensa a cosa cucinare per cena. Si coltiva, senza riuscire a dirlo, una maledetta speranza nel domani e la si tiene a galla, di notte, per non farla affogare troppo presto, che qui è sempre un attimo.
Capisci che non è del tutto assurdo disegnare una geografia dell’anima: alla fine sei sempre il posto che abiti o che hai abitato, per quanto lo fuggirai. C’è una bellezza anche nell’inospitalità ed è la lotta inquieta di riuscire a restare dove non ti sei mai sentito voluto. Meglio rimanerci, magari arrabbiato, ma mai davvero sconfitto.