UN’EMOZIONE DA POCO
Ho letto “L’isola di Arturo” a sedici anni, in inverno. La storia del ragazzino che vive Procida come fosse un universo leggendario mi aveva messo voglia di avventura. In un pomeriggio gelato, assieme a mio fratello e al cane, attraversai le zolle umide dei campi dietro casa, saltando fossati e calpestando le rovine di case della riforma agricola. Il giorno successivo, io e Sara raggiungemmo a piedi le valli della Moceniga, mentre il sole tramontava sulle bestemmie dei pescatori e sulle nostre elettrizzanti solitudini. Al ritorno mia madre ci preparò la cioccolata calda profumata di un Eldorado schiumoso e casalingo, un rito che segnava (pur se ancora non lo sapevamo) l’addio all’età dei sogni.
Pensavo che un giorno avrei esplorato terre sconfinate e conosciuto popoli lontani, tornando nella mia provincia zeppa di storie da raccontare. I desideri infantili sostano incorruttibili nell’antro luminoso del nostro cuore proprio perché rimangono inespressi. Ci portiamo dentro un’ala magica e possente che ci permette di volare sulla gimcana violenta delle sfighe su cui i grandi ci allertano; quegli ostacoli che probabilmente si avverano solo per il fatto di essere stati profetizzati, mannaggia a loro.
Nel capitolo ottavo del capolavoro della Morante, Arturo dice che la nostra natura ci porta a considerare i giochi dell’imprevisto più arbitrari di quel che sono: accusiamo gli scrittori di “vizio romanzesco” se tessono nella trama avvenimenti troppo sorprendenti, eppure molto spesso siamo portati a credere straordinari alcuni normalissimi fatti della vita reale. È in questa tensione prospettica che ho risolto il rammarico di non poter andare dove vorrei: cerco la meraviglia a brevi distanze e quasi sempre la trovo senza affanni, stupendomi molto per poco. Penso a Van Gogh, che dipinse “La notte stellata” dalla celletta del manicomio, censurando le inferriate. Nel cielo scorse un ammasso confuso di stelle e lo appiccicò sulla tela. Per troppo tempo quel vortice brillante venne attribuito al delirio covato nella sua testa. In realtà era riuscito a vedere, senza cannocchiale o competenze astronomiche, la misteriosa galassia M51.
Gli occhi esplorano e l’anima cammina. A fine dicembre, in quattro giorni, senza spostarmi dal Veneto, ho scalato il monte Summano, raccolto erbe per i colli Euganei, pedalato nella laguna di Caleri e camminato nel Regno dei Cimbri, sul tetto innevato di Asiago. Mi è bastato uno zaino, una bici decente, le ciaspole comprate per cinquanta euro e le mie scarpe preferite.
IL MONTE SUMMANO: RITI PAGANI E UN CRISTO D’ACCIAIO.
Alto 1296 metri, visto dall’uscita di Piovene Rocchette è la prima vera montagna della catena prealpina. Solitario e ingobbito, vulcano innocuo di calcare e basalto, il Summano ha una storia davvero strana. Sulla serpentina ingiallita dei suoi fianchi nasconde frammenti di ossa animali arsi nei roghi votivi preromani. Il nome deriva dal culto di Giove Summano, dio dei tuoni e delle tempeste notturne, marito infedele di una dea agghindata di fronde e serpenti, come la statuetta ritrovata sulla cima.
Dopo l’avvento del Cristianesimo e la cacciata dei pagani, nel monte ci fu un andirivieni di monaci ed eremiti. Nel 1452 il santuario sotto la vetta venne occupato dai Girolimini, inventori di un elisir medicamentoso a base di erbe e fiori, un intruglio dalla ricetta segretissima. Tutto il monte è un tripudio di flora colorata e odorosa: secondo la leggenda furono i bouquet lasciati dai pellegrini a dare origine a tale meraviglia.
La cima si raggiunge dal versante boschivo oppure da una mulattiera faticosa. Nel 1923, per festeggiare la fine della guerra, ci costruirono una croce in cemento armato di 16 metri. Nel 1993, lo scultore vicentino Giorgio Sperotto ci posò sopra un Cristo d’acciaio di 12 metri, raffigurato con un braccio alzato mentre risorge. Vederlo scintillare tra il cielo e le macchie di neve dà quasi le vertigini. È uno spettacolo impressionante, messo in scena nell’anfiteatro degli eterni giganti (il Carega, il Pasubio, via via fino alle Pale di San Martino) e osservato dalle morbide sponde dei Berici, l’antichissima barriera corallina che sputa sulla pianura fossili di esserini tropicali.
I RAPERONZOLI DEI COLLI AZZURRI
Fine umorista e appassionato di botanica, Alphonse Karr scrisse “Viaggio attorno al mio giardino” per prendere in giro un amico viaggiatore, sostenendo che nel suo orto vi fossero cose più interessanti rispetto a quelle cercate per il mondo. Il romanzo epistolare di Karr era uno dei libri preferiti di Van Gogh. L’artista amava camminare nella campagna provenzale. Per dipingere la natura doveva viverci dentro, sentirla respirare e perdersi, pennellando poi il magma ribollito nell’anima. Al fratello Theo confidò che una delle imprese più ardue fu riprodurre il nero-verde del cipresso e le sue proporzioni da obelisco egizio. “Mi stupisce il fatto – scrisse a Theo – che nessuno li abbia ancora fatti come io li vedo”.
Quando i vecchi setacciavano i boschi selvaggi dei colli per cogliere erbette e frutti, fissavano nella memoria alcuni punti utili a non perdere la strada. Si trattava per lo più di sassi protagonisti di strane leggende. Percorrendo a testa china i sentieri da Rovolon al Monte della Madonna ci si imbatte sulla “pria del calcagno” o la “carega dell’angelo”, punti in cui la Santa Madre si fermò a riposare insieme all’amico alato prima di raggiungere la cima.
Per trovare i “rampussoi” (i raperonzoli selvatici) occorre un occhio allenato e chi conosce i segreti della loro raccolta è restio a rivelarli. La loro bontà – mi ha detto un esperto – è data dalla tribolazione: i raperonzoli crescono in ogni ambiente, spalleggiando tra sassi e rovi, riuscendo a fiorire in qualsiasi condizione. Quando mostrano spavaldi la loro campanella azzurra è il momento in cui sono riconoscibili ma ormai amari e cattivi. Nella medicina tradizionale il raperonzolo, bollito in decotti, proteggeva dall’angina e dai malanni invernali. Fu anche protagonista di “Rapunzel“, celebre fiaba dei fratelli Grimm. La protagonista è una fanciulla rinchiusa dalla strega Gothel in una torre senza scale, tanto che l’amante per raggiungerla deve arrampicarsi sulla sua lunghissima treccia. Il motivo del rapimento è il furto dei raperonzoli della megera messo in atto dal padre della giovane, assillato dalle voglie della moglie in dolce attesa, che desidera ardentemente le rapette dolci da condire con olio e sale.
La ricerca delle erbe selvatiche ci riporta alla nostra genetica selvaggia, al fatto che per quanto istruiti e tecnologici, se non trovassimo qualcosa da mangiare moriremmo in poco tempo. Il sottobosco è un universo laborioso: spulciarlo per strappare arbusti commestibili significa entrare nella stanza dei bottoni di un sistema perfetto di connessioni e rinascite.
LA STRADA DELLE VALLI TRA VONGOLE E GABBIANI
E’ sempre stata la mia strada: quell’asfalto sdrucciolevole conosce ogni mio fallimento. Pedalarci sopra dopo le piccole e grandi delusioni era come ritrovare una scia di sogno, di speranza. Le curve sinuose che non disturbano la laguna erano per me la coda lucente di una cometa.
Per attraversarla si può partire da Rosolina, passando il cavalcavia della Romea e imboccando la via che porta fino alla chiesetta della Beata Vergine della Concezione, un pallido gioiello nella voragine polverosa dei campi desolati. La Moceniga è tutta tristezza e meraviglia. E’ un alternanza di terra e mare, gabbiani, fenicotteri rosa, aironi cinerini, nuvole in viaggio e canne ballerine. Prendendo l’argine che costeggia la provinciale per Rosolina Mare e poi il lungo viale immerso nella pineta, si arriva fino alla laguna di Caleri.
Le valli da pesca sono allevamenti estensivi in cui il pesce cresce in modo naturale. Lo si cattura nel tempo della “montata”, quando il pesce novello entra dal mare in laguna trovando l’acqua più calda e piena di cibo. Nelle mattine estive, quando il rosa dell’alba colora l’acqua di viola scuro, si possono raccogliere le vongole graffiando la sabbia. I pescatori, muniti di stivali alti e cappello, curvi per ore mentre il sole ingiallisce, sembrano uccelli minacciosi. In dialetto le vongole si chiamano “bibarasse”, cioè poveracce, perché erano pescate da gente umile, nel fango puzzolente che sta sotto l’acqua quieta.
IL TETTO INNEVATO DEL REGNO DEI CIMBRI E DELLA GRANDE GUERRA
Quando Van Gogh dipingeva paesaggi innevati, ci metteva sempre qualche uomo sopra. Erano per lo più poveri diavoli, contadini e minatori che nel bianco scintillante trovavano solo sofferenza e fatica. Nel 2018 Donald Trump ha chiesto al Guggenheim di acquistare il dipinto “Paesaggio con neve” . Il museo ha risposto che non era possibile concedere il quadro, ma se voleva poteva prendere “America”, il wc d’oro massiccio scolpito da Maurizio Cattelan.
Il centro di Campomulo oggi è un luna park sommerso dalle grida dei bambini sul bob, sciatori provetti e improvvisati, ragazze in moon boot ritratte mentre sorridono e scivolano. Eppure basta addentrarsi un attimo nei boschi non battuti per ritrovare il senso dell’altipiano. Nel suo ventrre gli unici rumori sono lo scricchiolio di passi ghiacciati, il fragore gentile delle polpette di neve cadute dai rami, il fiato corto che appanna la sciarpa. Dove non ci sono tracce è lì che inizia il pellegrinaggio.
L’altipiano di Asiago fu il rifugio dei Cimbri cacciati dai Romani dalle lande fredde della penisola danese. Erano un popolo di boscaioli e pastori, avvezzi alle esistenze rudi e quasi impossibili. Durante la Grande Guerra lassù la vita è stata presa a schiaffi. È difficile non pensarci mentre il sole ti ferisce gli occhi di bellezza. Cammini sotto il tiro dell’Ortigara, della Cima Caldiera, del Monte Chiara, santuari in cui la retorica del patriottismo non fa alcun effetto. Lì si moriva come cani gelati e la meraviglia della natura suonava come una bestemmia. L’ha raccontato con crude poesia Massimo Bubola in “Ballata senza nome”, recensito in questo articolo.
Se percorri le piste ordinate, le ciaspole sono inutili, ma appena ti avventuri tra i boschi diventano necessarie per galleggiare sulla neve. Se ti butti in mezzo ti sembra di essere un uovo spaccato nel monte di farina: è una sensazione incredibile. Ti senti nel leggendario Wild descritto da Jack London in Zanna Bianca, quella desolazione senza movimento, una “malinconia risoluta come tutto ciò che è infallibile”. E’ “la saggezza autoritaria e incomunicabile dell’eternità quando deride il futile sforzo della vita”.
Nelle potenze immense della natura il tuo niente è il tuo tutto. Siamo briciole di spazio e di tempo e di notte sogniamo un altrove accarezzato di sfuggita.
Federica Marangon
Mi sono piaciuti molto questi brani di “romanzo” che ha come protagonisti tu e la natura, tu e il paesaggio che ti propongono i loro discorsi e i loro silenzi…
Nelle descrizioni , dopo un approccio normale sai meravigliare con frasi originali e a volte spiazzanti , molto gradite. Grazie. Brava!
La ringrazio molto signora Germana, anche perché ha colto pienamente il mio intento. E’ fantastico essere letti da chi ha un orecchio fine. Spero di fare del mio meglio, grazie.
Federica