DALLE STALLE ALLE STELLE: LA LINGUA “VILLANA” – Ogni parola ha la sua storia

Baudelaire, poeta maledetto dell’Ottocento francese, diceva che “la campagna è quello strano posto in cui le galline girano crude”.

Nel secolo della rivoluzione industriale, la città era un universo nuovo e affascinante, gonfio di vapori e di luci. Rumori assordanti e ciminiere velenose rappresentavano l’irresistibile prodotto del moderno ingegno.

Si abbandonavano le strade di polvere e vento della campagna, l’eco di grilli e bestemmie, i profumi umidi di viti. Lì ci rimaneva la gente selvaggia che ignorava le innovazioni scientifiche o l’ebbrezza data dalla poesia e dall’assenzio.

La parola “villano”, che fino ad allora aveva indicato l’abitante della villa (la campagna), subì un peggioramento semantico e acquisì l’attuale significato. Lo stesso accadde per “bifolco”, originariamente “custode di buoi”.

I contadini, piegati dalla fatica e dalla fame, erano lontani da pensieri elevati e profondi. Pure la loro lingua, il dialetto, pareva macchiarsi di un’eccessiva concretezza.

Anche per noi, che rapidamente siamo passati dalla zappa all’Iphone, alcuni termini veneti antichi ci sembrano troppo rozzi. La parola “gotto” per “bicchiere”, ad esempio, deriva dal “guttus”, l’ampolla con cui i romani centellinavo le gocce di vino sui defunti per accompagnarli nel viaggio ultraterreno. Il rito sacro continuò a vivere nelle campagne, dove la fede – fusa con la superstizione – costituiva un’arma contro la paura.

Molte parole intellettuali derivano da oggetti palpabili o azioni. Così il “calcolo” era il sassolino con cui si facevano i conti; “ammagliare” era il “legare assi con corde”.

Altri termini, indicanti stati d’animo, fondano invece il loro significato nel linguaggio dei sacerdoti antichi. Il “desiderio” indicava propriamente la mancanza dei segni astrali che permettevano agli indovini di predire il futuro (da “de”, “senza”, e “sidus”, “astro”). Quando l’attenzione ai moti del cuore divenne più sottile, la parola “desiderio” iniziò ad indicare qualcosa che manca per essere felici, la volontà di ottenere ciò che ancora non c’è.

Fu lo stesso istinto di perfezione e completezza a portare l’uomo verso mete inesplorate, soprattutto l’uomo sofferente, umiliato e sottomesso ma ricco di esperienze. L’uomo che aveva bisogno della conoscenza per poter sopravvivere, di una buona dose di cinismo per convincersi del suo valore e di tanta rabbia per non distogliere lo sguardo dal cielo.

Come recita Gordon Gekko, in “Wall Strett”: “i più di questi laureati ad Harvard non valgono un cazzo. Serve gente povera, furba e affamata. Senza sentimenti. Una volta vinci e una volta perdi, ma continui a combattere. E se vuoi un amico, prenditi un cane”.

Federica Marangon 

Federica Marangon Mi chiamo Federica Marangon e ho 32 anni. La letteratura è la mia passione: l’ho cercata in ogni luogo in cui ho vissuto e lavorato. Leggere mi aiuta a capire il mondo e ad accettarne la follia. Quando anche i libri non mi bastano, vado in bicicletta fino al mare o a camminare in montagna. E quando il meteo non lo permette, scrivo. Su di me ci sono sempre tante nuvole.

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