DANNATA FORTUNA (Un racconto)

Partì quando i colli erano ancora blu. Qualche banco di nebbia toglieva la visibilità per pochi metri. Sembrava di entrare e uscire da un bicchiere di sambuca. I lampioni iniziavano a spegnersi, il lunedì era ormai alle porte: le facce a neon dei colleghi, la pausa caffè allungata dai racconti del week end, la noia che devi per forza dichiarare il primo giorno della settimana. E la Juve aveva pure perso. La radio prendeva poco, forse per l’umidità. Gli era arrivato un messaggio della moglie, l’avrebbe letto più tardi. La bimba aveva dormito poco, colpa dei denti spuntati. Dovevano essere spilli terribili, quei pezzettini d’osso bianco destinati a sparire dopo pochi anni. Gli strilli erano potentissimi, e Stefano si era sempre chiesto come potessero due piccoli polmoni a produrre una massa d’aria simile.

Il pacchetto di sigarette era mezzo pieno, ma dato che il lunedì non si sa mai come va a finire, andò lo stesso a comprarne uno. Ormai il tabaccaio glielo presentava sul banco appena entrava. Winston blu e qualche battuta di repertorio. Il tabaccaio, Mauro, era interista. Quel giorno sorrideva sotto i baffi e gli occhiali appoggiati sul naso tremolavano come le foglie nella rugiada. Aveva pochi denti e Stefano ripensava alla bocca di sua figlia, quel minuscolo antro buio con tanti denti quanto quelli del Mauro, ma puliti, forti, pieni di futuro. Quando gli chiese pure un gratta e vinci, il tabaccaio lo prese in giro. Come poteva pensare di tentar la fortuna dopo una silurata simile? Quattro a uno senza dignità, bisognava aver coraggio. Ma Stefano rispose che tanto valeva ormai. “Sfortunato nel gioco, fortunato in amore!” gridò Mauro mentre Stefano chiudeva la porta e bofonchiava un vaffanculo.

Al bar ordinò un macchiato, per berlo in piedi leggendo il giornale. La prima pagina riportava uno scandalo di appalti comunali. Ricordò di avere il gratta e vinci in tasca. Lo prese e lo appoggiò sopra il Mattino di Padova per scoprire se fosse il biglietto vincente. Pescò una moneta dalla giacca e iniziò a grattare. Il gioco consisteva nel trovare delle mele portafortuna. Le mele avevano colori diversi, la rossa valeva ventimila euro. Man mano che la polvere argentea copriva la scritta “tangenti” del titolo di prima pagina, Stefano scoprì una mela rossa. Ripassò le istruzioni del gioco, ed erano chiarissime, sì. Grattò altre due mele rosse, gli venne caldo, aprì la cerniera della giacca e cercò di mettersi comodo. Arrivato a cinque, lesse il messaggio della moglie. Gli diceva di passare a prenderla verso le sei perché avrebbe lasciato l’auto dal gommista per mettere i pneumatici invernali. Quando vide sette mele, fu incapace di far di conto. La parola “tangente” era ormai completamente coperta dalla polvere argento, come se una stella vi si fosse scrollata sopra. Le mele erano dieci. Duecentomila euro. Stefano Rosin, impiegato in uno studio tecnico, padre e marito quarentenne, aveva appena vinto duecentomila euro.

Il macchiato era ormai freddo e la barista gli impresse i suoi occhioni neri per intimarlo a spostarsi dal bancone e lasciare il posto agli altri clienti. La fissò per un infinito secondo. I suoi riccioli divennero numeri, sul grembiule troppo stretto presero forma i calcoli aritmetici. In un anno, tredicesima compresa, Stefano guadagnava 21.000 euro. Duecentomila euro rappresentavano nove anni e mezzo di lavoro. Trasalì. “Un euro e dieci”, gli gridò la barista. Tremando, prese cinquanta euro dal portafoglio e glieli porse. “Non hai spicci?”. Forse sì, ma non era nelle condizioni di guardarci. E poi che voleva quella? Certo che non aveva spicci. Con la vincita avrebbe potuto comprarselo quel bar di bassa categoria, con i divanetti logori, perché li avevano voluti prendere bianchi come nei locali di fighetti; e poi i soliti cioccolati stantii, le scritte intimidatorie sopra il cesso “se rispetti gli altri tieni pulito!!!” come se bastasse un cartello a far rigar dritta la gente.

Lo doveva dire subito alla moglie? E se magari non aveva vinto nulla, se si era sbagliato? Si guardò intorno, mentre rimetteva nel portafoglio le banconote che la barista gli aveva cacciato in mano. Livio, operaio comunale, stava grattando pure lui. Il gioco era lo stesso. “Come funziona?” chiese Stefano simulando uno scarso interesse. “Con la rossa ti prendi ventimila euro, ma non si vince mai un cazzo”. Allora era tutto vero. Le bande catarifrangenti del giubbino dell’operaio lo fecero quasi lacrimare. Doveva dirlo alla moglie. Lei era già al lavoro, probabilmente, non poteva chiamarla. Le avrebbe mandato un messaggio. Prese il telefono dalla borsa, digitò il suo nome. L’ultimo messaggio era quello sui pneumatici invernali. Rispose “ok”, e chiuse.

Uscendo stringeva il biglietto nella tasca. Non doveva perderlo, non doveva sudarlo, non doveva nemmeno farlo vedere. Tra dieci minuti avrebbe dovuto timbrare. Fumò. Un giorno aveva fatto il conto di quanto spendeva in sigarette nell’arco di un anno. Gli piaceva fumare. Era un’abitudine quasi sacra. Aveva smesso quando era nata la bambina, ma perché privarsi di uno dei pochi piaceri che aveva? I conti però parlavano chiaro. In un anno spendeva circa 800 euro di sigarette. Un giorno si mise a pensare cosa avrebbe fare con quei soldi letteralmente buttati: una breve vacanza per la famiglia (dato che costava sempre troppo), oppure comprare l’asciugatrice sognata dalla moglie. Ora non avrebbe avuto problemi. Quindi? Poteva fumare il doppio senza pentimenti? Gli sembrò un pensiero spaventoso.

Il capo era già arrivato, parlava al telefono. Stava ordinando le ceste natalizie per i dipendenti. L’anno precedente, appena aveva portato a casa la cesta, la moglie strappò subito il cellophane di stelline rosse per vedere cosa conteneva. Ad ogni leccornia estratta, faceva una smorfia schifata. Per lei erano tutte cose di pessima qualità, dal pandoro al torrone, senza parlare della bottiglia di vino.  Per Stefano era stato quasi umiliante. Li vedeva i consuntivi dello studio e sapeva che per pagare quelle ceste il capo aveva dato il massimo di ciò che aveva a disposizione. E quest’anno? Quest’anno lui aveva duecentomila euro in più. La cesta l’avrebbe dovuta donare lui. E quando il capo, messo giù il telefono, lo rincorse per dirgli “Rosin, aspetto un preventivo da giovedì scorso!” fu lì lì per metterlo al corrente della questione. Lo infastidì il modo. Gli parve più arrogante del solito. Arrivava sempre almeno un quarto d’ora prima e non si era mai tirato indietro per far straordinari. Persino quando era nata la bambina, nonostante le notti in bianco, le coliche e i pensieri, non aveva mai tardato. Forse c’aveva ragione la moglie; il capo e i suoi torroni di merda, se ne andassero pure al diavolo.

Appoggiò la borsa e accese il computer. Recuperò il preventivo dalla cartella. Aprì il file. Aggiunse un foglio excel e digitò 200.000. Per estinguere il mutuo gliene bastavano 10.000. Un po’ di soldi glieli avevano dati i suoi, un po’ i suoceri. Forse avrebbe dovuto restituirli. Ma erano un regalo. I genitori gli avevano anticipato un po’ di eredità. Non gli avevano mai pagato nulla, nemmeno la macchina quando prese la patente. Gli amici giravano con auto nuove fiammanti. Il giorno in cui, felicissimo, portò il suo nuovo acquisto in piazza, si misero tutti a ridere. Era un catorcio usato, ma era tutto suo. All’epoca si era dato questa nobile consolazione. E invece c’era rimasto molto male. Sghignazzava anche la sua ragazza, e quando un sabato sera le ruote rimasero impantanate nella golena in cui si erano appartati, lei sbuffò e maledisse “questa macchina da sfigato”. Il regalo dei suoi se l’era meritato. E pure quello dei suoceri, vivaddio. Solo per le rotture di coglioni che gli riservava la vedova, la madre di sua moglie. Aveva dovuto scarrozzarla in ospedale per un anno dopo la morte del marito, quando si mise a fare la malata immaginaria. La moglie a casa col pancione e lui in giro con la vecchia depressa e i risultati delle sue analisi. Ormai sapeva quanto pisciava, se era stitica, se il colesterolo superava i livelli di guardia. Per carità, se l’era guadagnata quella casa.

“Rosin!” i pensieri l’avevano distratto, doveva concludere il lavoro il prima possibile. Avrebbe potuto comprare un piccolo negozio di biciclette. Era il sogno di suo padre. Stefano era cresciuto in mezzo alle bici. L’infanzia era un ricordo lieto di mani unte di grasso e lo sgranocchiare ritmico delle catene. Le biciclette erano un capolavoro di arte e tecnica. I viaggi su due ruote rappresentavano la sua idea di libertà. In passato aveva percorso mezza Europa. Il giro più bello l’aveva fatto lungo il Danubio, chissà dove aveva messo le foto. Avrebbe assunto un dipendente per poter fare, ogni tanto, il cicloturista. Alla fine i duecentomila euro non dovevano per forza sconvolgergli la vita; lo avrebbero fatto stare più tranquillo, tutto qua. Poteva finalmente fare il lavoro che amava, crescere la bambina senza preoccuparsi delle spese quotidiane. La moglie avrebbe potuto lavorare meno.

Presto arrivò l’ora della pausa pranzo. Il lunedì non usciva quasi mai perché portava gli avanzi della domenica. Oggi aveva pollo e patate arrosto. E pure una fetta di crostata al cioccolato, la sua preferita. Gliela aveva preparata la moglie, con la bambina in braccio, disperata e paonazza per i denti assassini. La vecchia malata immaginaria non cucinava nulla, ma ogni domenica pranzava con loro. Mentre mangiavano il pasticcio di carne, lei iniziava l’assurdo monologo sui danni che il grasso animale aveva provocato alle povere coronarie del marito, colto da infarto una mattina di luglio. Il teatrino finiva con un pianto convulso e un tovagliolo sbavato di rosso. E poi la moglie che la consolava, un tintinnare di piatti sporchi e la perfida e comprensibile voglia di essere in un altrove sconosciuto. Non si era mai permesso di dire alla moglie che la suocera era una rompicoglioni. Aveva già il suo da fare, povera. La domenica sera crollava sul divano. Stefano le toglieva gli occhiali e con un bacio la mandava a dormire. Lei raccoglieva le pantofole e tentennando saliva le scale. Era ancora bellissima. Mora, slanciata, vestiva con gusto. Aveva gli occhi neri e brillanti e un sorriso quasi triste.

Si erano innamorati dieci anni prima. All’epoca lei era fidanzata, ma quando conobbe Stefano, decise di passar la vita con lui. Era stata l’unica volta in cui una donna lo preferì ad un altro. La paura più grande di Stefano era il tradimento. Se l’ha fatto una volta, diceva a sé stesso, potrebbe rifarlo. Ma man mano che gli anni passavano, il timore si affievoliva. Ora lei era madre, non aveva più vent’anni. Pian piano sarebbero mancate le energie, sarebbe venuta meno l’avvenenza. Eppure l’unica volta in cui aveva davvero dubitato della sua fedeltà risaliva a poche settimane prima. Gli disse che sarebbe passata da Miriam per una presentazione dei prodotti Avon. “Non farò tardi” aveva detto cercando le chiavi. Dopo due ore non era ancora tornata. La piccola aveva iniziato a piangere fin da quando aveva acceso l’auto. Stefano era stremato. Non avrebbe mai voluto chiamarla, ma non sapeva più cosa fare. Il telefono era spento. Forse voleva stare in pace, che diamine. Ma lui rischiava di impazzire in mezzo ai pianti inarrestabili. Chiamò Miriam. Miriam non era in casa, non c’era alcuna presentazione Avon. Può essere che Stefano avesse capito male. Era uscita di fretta, forse aveva detto un altro nome, oppure aveva detto Miriam, in quel casino si era confusa. Riaccese il telefono dopo mezz’ora, richiamò e disse “arrivo subito”. Aprì la porta, arrossata e spettinata, prese la piccola in braccio e si chiuse in camera. Stefano non aveva voglia di chiederle nulla, l’avrebbe fatto il giorno dopo. Fu una notte tranquilla, la bestiolina sdentata aveva seppellito le forze sotto il cuscino. Stefano non chiuse occhio. Davvero sua moglie sarebbe stata capace di fargli una cosa simile? Dopo il loro primo anno d’amore, lei gli confessò di aver baciato un altro. A Stefano crollò il mondo addosso. La volle lasciare, ma dopo un mese si accorse che la sua vita senza di lei perdeva sostanza. Lei fece di tutto per riparare quella ferita; gli disse di esser pronta a subire tutte le conseguenze del caso ma di non esser capace di immaginare un altro giorno distante da lui. Che era poi, un bacio? Un momento di debolezza, un errore da rimpiangere a lungo, ma nulla che potesse scalfire il loro progetto.

Nel bar dove Stefano andava a vedere le partite, si parlava spesso dei cornuti. Stefano non sapeva se rientrasse pure lui nella categoria e, nel dubbio, rideva alle battute. Il fatto che il tradimento si fermasse al bacio era un’ipotesi improbabile secondo gli avventori. “Se una è cagna” dicevano “lo è fino alla fine”. Sua moglie non era una cagna, santo cielo. Era la madre della loro bambina, la loro immensa gioia. Era la donna che cantava in napoletano mentre si faceva la doccia, la schiacciatrice che fece vincere alla squadra due tornei, la ragazza che – dopo la morte del padre – per una settimana dormì abbracciata a lui, e le sentiva il cuore pulsare veloce, come volesse volare via dal petto e raggiungere il genitore che adorava. Eppure spesso lo guardava con disprezzo. Quando, l’anno prima, gli disse che il capo gli aveva dato un pandoro del discount, Stefano aveva riso. “Ridi” gli aveva detto lei, accartocciando il cellophane di stelle rosse. “Ti fai prendere per il culo da tutti” urlò infuocata. Aveva pronunciato “tutti” con rabbia. E, ora che ci pensava, aveva detto tutti per non dire “me”.

Alla fine chissà dove era andata la sera della presentazione Avon. “Se è una cagna, lo è fino alla fine”. Ora quelle parole gli tuonavano dentro. Il bacio dato all’altro – se era stato solo un bacio – l’aveva devastato. Per mesi, ogni volta che si guardava allo specchio, vedeva un coglione. Un uomo privo di qualità, che forse si meritava le corna. Non mise mai in dubbio lei, in realtà. Aveva sbagliato, ma forse cercava di meglio e c’aveva ragione. Stefano pensò che non se l’era mai goduta davvero sua moglie. Dopo un anno venne tradito e visse con quel terrore per anni. Ora con la bambina avevano altri pensieri. In fondo non aveva mai avuto una donna pazza di lui. C’erano amici con uno stuolo di femmine pronte ad ogni sacrificio. Amanti che brucavano briciole di attenzione, bellissime e fascinose. Con duecentomila euro pure lui avrebbe potuto permettersi qualcosa. Non sapeva se sarebbe stato capace di tradire, conoscendo la sensazione devastante che si prova stando dall’altra parte. Ma la barista riccia, con le tette strizzate nel grembiule, forse non l’avrebbe trattato così se avesse avuto un rolex al polso e il macchinone. In fondo le donne cercano pure questo no? La tipa che rimase impantanata con lui nella Fiesta scassata, il giorno dopo sparì. A che serviva essere bravi uomini se poi queste galline impazzivano per uno che le trattava come merce?

I pensieri iniziarono a dargli la nausea. Lasciò lì il pollo con le patate e disse al capo che non stava bene, doveva uscire prima. Aveva spedito il preventivo via mail. Mentre parlava, tastava il biglietto fortunato. Andò a fare una passeggiata. La nebbia si era alzata, quell’anno Novembre era mite. Camminava sul tappeto di foglie variopinte e lasciava andare i suoi dubbi come freccette. Il bersaglio era sempre lì, erano i duecentomila euro. Suo padre e sua madre avevano risparmiato il più possibile. Mai fatto colazione al bar. Ancora oggi, Stefano viveva il suo macchiato quotidiano come un lusso quasi immeritato. “Sai quanti caffè puoi farti a casa con un euro e dieci?” gli pareva di sentirlo, suo padre, ogni mattina. Era una spesa evitabile, quindi inutile, quasi immorale. Si chiese cosa avrebbe pensato sua figlia scoprendo che il padre aveva vinto nove anni e mezzo di lavoro grattando un biglietto comprato a caso. Poteva crescere con il culto del lavoro e delle privazioni o avrebbe capito che un po’ di culo ti risolve la maggior parte dei problemi? Ma lui sarebbe stato un bravo padre. Aprire un negozio di bici sarebbe stato l’unico suo sfizio. Non avrebbe tradito sua moglie, magari qualche soldo lo dava in beneficienza, magari ai bambini meno fortunati e sua figlia ne sarebbe stata orgogliosa. Non poteva sapere quanti, ora. Doveva togliere quelli per il negozio, i diecimila del mutuo, qualcosa per la figlia. Quanto rimaneva? Si sedette su una panchina, tirò fuori il quaderno dalla borsa e si mise a scrivere. Una foglia rossa cadde sulla pagina. I soldi sono sempre un problema, mannaggia, che ci siano o meno. Poche ore prima era tutto più semplice. Il lunedì doveva essere un giorno un po’ più difficile degli altri, ma rientrava nell’ordine delle cose. Il suo ordine, il mondo che fino ad ora aveva conosciuto e misurato, costruito. Cosa ne sarebbe stato delle sue fatiche se poi bastava trovare dieci mele rosse per guadagnare nove anni di stipendio? E le cose che aveva pensato sulla moglie? Che squallore. Nonostante tutto lui era un marito felice e un uomo fortunato. Questo era il matrimonio: un porto sicuro, che ti salva da tempeste ben peggiori della sua piatta normalità. I soldi li avrebbero fatti litigare. Già l’asciugatrice era stata oggetto di diatribe sconfinanti in piccoli rancori. Duecentomila euro avrebbero trasformato le loro serate in un inferno.

Doveva decidere cosa fare. Chiuse il quaderno, si alzò. Ormai era quasi buio, aveva le mani ghiacciate. Arrivò davanti al tabacchino. Doveva dirgli che aveva vinto. Estrasse il biglietto della tasca, le mele sembravano ancora più rosse. Lo stracciò e lo buttò.

Nel frattempo gli suonò il telefono: era sua moglie, gli ricordava di andare a prenderla dal meccanico. Gli sembrò di sentire sua figlia sorridere.

Federica Marangon Mi chiamo Federica Marangon e ho 32 anni. La letteratura è la mia passione: l’ho cercata in ogni luogo in cui ho vissuto e lavorato. Leggere mi aiuta a capire il mondo e ad accettarne la follia. Quando anche i libri non mi bastano, vado in bicicletta fino al mare o a camminare in montagna. E quando il meteo non lo permette, scrivo. Su di me ci sono sempre tante nuvole.

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