LA SCRITTURA E’ UNO SPORCO LAVORO: manie e abitudini di cinque geni della letteratura.

Scrivere la tesi è stata una delle cose più belle che ho fatto nella mia vita. Era la prima (e credo ultima) analisi critica delle opere di una scrittrice veneta sconosciuta, Paola Drigo. Ci ho messo un anno un quattro mesi a concluderla. La professoressa, Anna Folli, si dimostrò sempre annoiata e scocciata nel correggere il mio lavoro, non c’era nulla che le andasse bene. Poco importava; le mie giornate in quel periodo erano fantastiche. Mi svegliavo a mezzogiorno, guardavo due episodi di Ally Mcbeal e scrivevo fino alle 3 del mattino. Uscivo per bere qualche birra e passeggiare fino all’aula studio per leggere le mail, oppure andavo in posta per pagare le spedizioni di articoli da vari archivi italiani.

Immergersi nel mondo delle parole è elettrizzante. Ci sei te, un foglio bianco e la penna che, come una bacchetta magica, crea qualcosa che prima non c’era. Eppure scrivere è uno sporco lavoro. Al talento, al fuoco dell’ispirazione, devi dare un metodo, un ordine. La scrittura è un’attività paradossale: per inventarti un nuovo stile devi padroneggiare canoni grammaticali antichi; per farti ascoltare devi essere comprensibile ma non piatto e noioso, altrimenti le tue pagine diventano polvere in tempi brevi. Flaubert ci mise cinque anni a scrivere “Madame Bovary”, iniziato nel 1851. Si lamentava con l’amante Louise: “prevedo terribili difficoltà di stile. Non è per niente facili essere semplici”.

All’epoca Gustave aveva trent’anni, una pancia importante e curava la precoce calvizie applicando un tonico miracoloso ogni mattina. Lo chiamavano “l’eremita di Croisset”, il sobborgo di Rouen, in Alta Normandia, dove lo scrittore viveva con la madre. Flaubert si svegliava tardi, costringendo il resto della famiglia a parlare pianissimo. Alle undici passeggiava in un boschetto di castagni e all’una iniziava la lezione quotidiana con la nipote Caroline. Leggeva su una sedia a dondolo, cenava con uova e formaggio e alle ventidue iniziava a lavorare duramente. A volte ci metteva due settimane per scrivere due pagine, per poi stracciarle se non le riteneva perfette: “non riesco a credere” – diceva agli amici – “che non mi si sia ancora fuso il cervello”.

Notizie come questa sono tratte da “Rituali Quotidiani”, prima opera di Mason Currey, giornalista e blogger statunitense. Con Currey si entra nel vivo delle officine di più di cento scrittori, registi, artisti. Spulciando lettere e testimonianze indirette, è riuscito a ricostruire la routine che permette ai creativi di liberare la mente e guadagnarsi da vivere, lottando con scadenze e vuoti di ispirazione. Sembra che le abitudini quasi maniacali garantiscano una certa protezione alla loro fantasia.

L’idea – come racconta nella prefazione – gli è venuta in un pomeriggio piovoso, in cui, tra un caffè e l’altro, non è riuscito a combinare nulla. Immobile davanti al PC per comporre un articolo da consegnare il giorno dopo, Currey si è interrogato sugli orari e programmi dei geni di ogni epoca, tracciando un’opera leggera e curiosa.

Stephen King, per esempio, è uno degli scrittori più metodici. Scrive tutti i giorni, duemila parole quotidiane. Lavora fino a sera, quando si riposa guardando le partite di baseball in tv. Nella sua autobiografia paragona la scrittura al sogno: il tuo studio deve essere un luogo privato; gli orari sempre uguali devono rispecchiare il rituale come quando si va a dormire. Nella scrittura, come nel sonno, “impariamo a rimanere fisicamente immobili mentre incoraggiamo la mente ad uscire dal monotono pensiero razionale”. King è uno degli autori contemporanei più prolifici, con 80 opere pubblicate.

Si vocifera che dal 1999 si faccia aiutare da un ghost writer, cioè qualcuno che gli scrive i libri. In quell’anno è stato investito da un minivan riportando diversi traumi. Dopo l’incidente ha acquistato il mezzo per 1600 dollari nella prospettiva di sfasciarlo una volta recuperate le forze.

Anche Simone De Beauvoir lavorava sempre, nonostante la sua giornata ruotasse intorno alla relazione con Jean-Paul Sartre. La loro era una storia d’amore aperta: potevano tradirsi reciprocamente, a patto di dirselo sempre. Il regista Lanzmann (autore del monumentale documentario “Shoah”, 1974) fu suo amante per circa sei anni. Racconta che lei si alzava verso le dieci e si metteva a scrivere e studiare. All’una pranzava con Sartre e spesso invitava anche lui, l’amante. Al pomeriggio tornava al lavoro, fino alle nove. Commentava con il compagno ciò che avevano scritto durante il giorno e poi andava a dormire con Lanzmann. La loro era una vita sobria, poco incline alla mondanità, di certo un po’ fuori dagli schemi ma adatta al loro genio.

Umberto Eco, invece, non seguiva alcuna routine. Esordi come romanziere a 48 anni, con “Il nome della rosa”. Affermava di aver avuto l’enorme fortuna di poter vivere della propria passione, ovvero lo studio della letteratura, per cui lavorava 24 ore al giorno. “Riesco a lavorare anche nel bagno di un treno. Quando nuoto, produco un sacco di cose, soprattutto se nuoto in mare. Molto meno nella vasca da bagno, ma comunque anche lì”, raccontò in un’intervista del 2008. C’erano giorni in cui si fermava solo per mangiare un panino, altri in cui non sentiva alcuna necessità di produrre. Adorava passeggiare per Bologna e bere un Martini per aperitivo, nei bar in cui trovava gli amici abitudinari.

Autore ancor più prolifico di King fu George Simenon, con 425 titoli all’attivo. Eppure scriveva solo dalle 6.30 alle 9.30 del mattino. Poteva scrivere fino ad ottanta pagine senza doverle rivedere. Era soltanto pieno di superstizioni: nessuno poteva osservarlo mentre lavorava, e il cartello “non disturbare” doveva essere preso seriamente. Indossava la stessa mise per ogni romanzo. Teneva in tasca dei tranquillanti che assumeva quando lo prendeva l’ansia, all’avvio di ogni opera. Si pesava prima e dopo ogni libro, calcolando che per la stesura consumava un litro e mezzo di sudore.

Lo scrittore John Cheever riteneva che non si possa scrivere nemmeno una lettera commerciale senza rivelare qualcosa di sé: la storia della penna da cui sono nati personaggi ricchi di eterno fascino è interessante quanto loro. Ed è incredibile pensare che anche la più rocambolesca delle avventure sia stata costruita su un tavolino silenzioso, tra un pranzo ed una cena, una chiacchiera, una passeggiata.

Federica Marangon Mi chiamo Federica Marangon e ho 32 anni. La letteratura è la mia passione: l’ho cercata in ogni luogo in cui ho vissuto e lavorato. Leggere mi aiuta a capire il mondo e ad accettarne la follia. Quando anche i libri non mi bastano, vado in bicicletta fino al mare o a camminare in montagna. E quando il meteo non lo permette, scrivo. Su di me ci sono sempre tante nuvole.

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