“TU SARAI LA MIA ROCCIA PIU’ BELLA”: MORIRE E RINASCERE SUL NANGA PARBAT.

Ho letto diverse opinioni sulla vicenda di Daniele Nardi e Tom Ballard, ma le uniche parole che mi risuonano in testa sono quelle della fidanzata di Tom: “Un dolore straziante per non aver ascoltato le mie costanti parole che ti dicevano che su quella montagna non ci dovevi andare, i tuoi sogni non erano lì, per questo madre natura non ti ha più protetto. Ringrazio l’universo per avermi regalato una persona così speciale, non restano che i magnifici ricordi dei tempi trascorsi insieme che sono i più belli della mia vita. Ti ritroverò nella natura, nei fiumi, negli alberi, nelle montagne, tu sarai sempre la mia roccia più bella”.

È il grido lancinante e dolcissimo di una ragazza che in quell’uomo ha amato ciò che lo ha strappato da lei: la seduzione del rischio, la fame di cielo, un istinto dell’esplorazione che viene da lontano.

Nardi e Ballard avevano tentato l’impossibile: scalare in inverno lo sperone Mummery, la via più difficile della montagna più dura al mondo, il Nanga Parbat. Era l’ossessione di Daniele e una prova estrema per Tom, che a sei anni perse la madre sul K2. Il destino con loro è stato quasi beffardo: si pensava che la fine arrivasse con l’ammasso bianco e ghiacciato di una valanga; avrebbero potuti essere sepolti dalla luce bruciante di neve. Invece sono stati avvistati dall’amico scalatore Txikon, impegnato nelle ricerche: nell’obiettivo del cannocchiale ha scorto una tenda e, poco distante loro, Nardi e Ballard, nelle giacche a vento, intenti a tirare una corda fissa, per sempre. L’ipotesi più probabile è che siano morti di freddo.

Ora le opinioni si accumulano, si svendono. Chi li ha amati li difende perché così deve essere; alcuni alpinisti di fama mondiale – che ben conoscevano i rischi dell’impresa – gridano alla follia. C’è anche qualcuno che, pur riconoscendo in loro un’hybris mortifera, vi ravvede il coraggio dei veri esploratori, di chi sogna più avanti degli altri, trovando il proprio senso in questo vagare inquieto verso i confini dove la vita umana non è la benvenuta.

Al di là di ogni giudizio etico e morale, io credo che la vicenda del Nanga Parbat ci colpisce perché ci pone di fronte a due grandi interrogativi: come si vive e come si muore. Guardiamo i profili degli ottomila in cui la maggior parte di noi non arriverà mai e pensiamo a dove stiamo andando davvero. Io me lo sono chiesta, con immenso dolore e profonda gratitudine verso due uomini in grado di farci guardare dentro, cercando risposte che loro si erano già dati da tempo.

Ho anche ripreso in mano un libretto di Gustav Theodor Fechner, “Il libretto della vita dopo la morte”. Fu un mio acquisto disperato. Lo comprai due giorni dopo la scomparsa del migliore amico, una cosa di cui parlo malvolentieri e su cui finora non ho mai scritto nulla.

Fechener fu il fondatore di una scienza piena di fascino, la psicofisica. Era l’Ottocento, un secolo in cui la tecnologia permise di scoprire territori inesplorati, dove santoni e sciamani vivevano ancora come primitivi predicando visioni strane. Nel suo commovente sermone, Fecher esamina la relazione tra spirito e materia, chiedendosi cosa rimane di noi una volta morti. Ci paragona ad alberi, con le radici attaccate alla terra e i rami protesi al divino e, in questa estensione, accade un passaggio straordinario, cioè l’eternità. Gli spiriti dei defunti, usciti dal corpo entrano in noi e nelle cose che ci circondano. Noi uomini siamo “i ricordi della terra”: portiamo ciò che era prima e siamo ciò che viene dopo. L’aldilà è un volo di anime libere, e sono ancora tutte tra noi. Nulla di noi va perduto, la morte è solo una tappa del cammino. La sua fu una posizione anomala nel pensiero occidentale; e se da una parte ricorda la reincarnazione buddhista, dall’altro si avvicina a quella rivoluzione novecentesca che è la fisica quantistica, la scoperta delle particelle elementari che squarciano il vuoto con salti non sempre prevedibili e si relazionano generando e trasformando la materia.

Il mio migliore amico se l’è preso il cancro a 31 anni. Il fatto strano è che qualche mese fa, sistemando la mia camera, ho trovato un portachiavi che avrei dovuto regalargli al ritorno dall’Irlanda e che credevo di aver perso. Quanto crudeli sanno essere, a volte, gli oggetti. Quando l’ho trovato ho pensato: è possibile che io scali il Nanga Parbat in solitaria, ma è di certo impossibile che io veda questo portachiavi tra le sue mani. Sì, tra le riflessioni che ho fatto sull’ostinata voglia di scalare il Mummery di Nardi e Ballard c’era anche questa: se il mio amico avesse avuto qualche giorno in più non sarebbe andato a rischiar la vita per la conquista dell’inutile. Magari avrebbe preso un caffè con me, avrebbe guardato il cielo dal giardino di casa, tanto è azzurro come quello degli Ottomila.

Ma la verità è che questo pensiero non conta nulla. È un esercizio razionale che perde ogni significato se rapportato all’immenso mistero del nostro senso nel mondo. Il mistero è un buco nero che riempi come ti pare e lo riempi da solo, senza relazionarti con niente e nessuno. Il nostro senso non si confronta con quello degli altri. Parliamo di Nardi e Ballard per non parlare di noi e invece dovremmo farlo, consci che la loro sfortuna può essere la leva per una nostra rinascita, per chiederci se la vita, per come la stiamo prendendo, valga davvero la pena. E per alcuni uomini scegliere come vivere significa scegliere come morire e fare i conti con una fine che è parte integrante della stessa strada, del medesimo sogno.

Quel giorno comprai il libretto di Fechner perché io non credo nell’aldilà e per me il lutto fu ancora più feroce. Non può finire così, mi dissi, il nostro affetto, la nostra fatica, il nostro passaggio. Comprendo con tutto il cuore le parole della fidanzata di Tom, perché anch’io vado in montagna e per ritrovare il mio migliore amico. I luoghi in cui lo sento potentemente vicino sono dove è padrona la bellezza, la bellezza necessaria della natura che sopravvive, che c’era milioni di anni prima di me e che ci sarà dopo di me, che mi fa sentire piccolissima eppure parte di una meraviglia senza tempo, senza spazio. In ogni stella che brilla, nell’acqua pulita e rumorosa, nei fiori profumati come fare a non sentirlo qui, ancora, con me?

 

 

 

Federica Marangon Mi chiamo Federica Marangon e ho 32 anni. La letteratura è la mia passione: l’ho cercata in ogni luogo in cui ho vissuto e lavorato. Leggere mi aiuta a capire il mondo e ad accettarne la follia. Quando anche i libri non mi bastano, vado in bicicletta fino al mare o a camminare in montagna. E quando il meteo non lo permette, scrivo. Su di me ci sono sempre tante nuvole.

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