IO E VERMUT: innamorarsi di un gatto.

Liberata da ogni senso morale e implicazione sentimentale, la natura bada solo a sopravvivere. Le scelte di vita, morte e trasformazione sono assoggettate all’unico razionale imperativo: non finire mai. Accade così che una gatta, incapace di sfamare tutti i cuccioli, ne abbandoni alcuni per preservare il destino dei più forti e garantire la sopravvivenza della specie. L’essere umano non si rassegna alla cruda logica della natura matrigna e – quando non la sfrutta e non la distrugge – tenta di invertire il corso delle sue faccende.

Accade così che il micino lasciato orfano venga raccolto e cresciuto da una nuova mamma umana. Questo è stato il destino di Vermut, nome dato in onore dell’antica e aristocratica bevanda.

Quando è arrivato a casa era grande come una mano piccola. Gli occhi ancora semichiusi sembravano immersi in un calice di petrolio e la pelliccia – arruffata e impiastricciata di latte – pareva una coperta buttata su per ripararsi dagli spifferi. La cosa più spaventosa era il pianto: dio solo sa come un minuscolo polmone possa scaturire una tale fragorosa potenza. Vermut piangeva quasi sempre, soprattutto di notte. Chiedere il cibo rappresentava un’impresa scatenata, nonché l’unica cosa che valesse la pena fare. Si nutriva con un biberon alto quanto lui. Lo beveva voracemente, concedendosi qualche brevissima pausa per respirare, mentre la pancia rosa e calda si gonfiava all’inverosimile e le zampe – fragili come un’ala di passero – si aggrappavano mostrando artigli minacciosi.

Nell’atto del nutrirsi c’era tutta la forza di cui un essere vivente è capace. Lo disse Sant’Agostino, parlando dei bambini: “la loro debolezza è nel corpo infantile, non nell’anima” perché se potessero ti ammazzerebbero quando neghi loro qualcosa. Se Vermut fosse stato un gorilla, al momento della pappa ci avrebbe aggredito come una bestia invincibile; se fosse stato un vento o un fiume avrebbe spazzato via la casa. All’ultimo sorso di ciuccia cadeva infine in un sonno senza sogni. Beato, ronfante, con gli occhi che si capovolgevano come se il petrolio spandesse dal calice.

  

 

Ora mangia crocchette e pezzettini di carne. C’è stata la parentesi degli omogeneizzati costosi che, non senza divertimento, sceglievamo secondo i gusti e abbinamenti più disparati. La sua ciotola rossa è in soggiorno. Appena agito il sacchetto delle crocchette, Vermut abbandona ogni attività e arriva guardandomi con gli occhi che ora sono del colore del cielo quando sta per piovere. La codina sollevata sembra seguire il movimento del musetto che pesca nel cibo fin che tutto non è ripulito.

 

Una delle emozioni più intense l’ha data la prima volta che è riuscito a saltare i quattro gradini tra la cucina e il soggiorno senza fermarsi e senza piantarci il naso in goffe capriole. Ci sente un po’ scemi a parlar così di un gatto, eppure non se ne può fare a meno. Non mi stupisce che tali animali fossero venerati nell’antico Egitto, ineguagliabili protagonisti di leggende zeppe di fascino. Sono creature misteriose e la regale indipendenza che li caratterizza ci rende schiavi del loro centellinato affetto. Il gatto non è del padrone, ma è il padrone ad essere proprietà del gatto.

Dicevo che la prima volta in cui Vermut ha saltato i gradini senza franare è stata un’emozione incredibile. Seduto sulle zampette posteriori, con le orecchie tese come due missili in procinto di scaraventarsi sulla luna, ha calcolato con estrema attenzione la distanza tra lui, i gradini e la gloria. Poi ha valutato e scelto il ritmo del movimento. Infine si è lanciato in questa impresa eccezionale, spingendo sui polpastrelli senza dar l’impressione di far fatica, producendo un flebile “miao” di incitamento simile (solo negli intenti) al grido valchirio delle lanciatrici di giavellotto. Uno, due, tre, quattro ed è arrivato perfettamente posato e fiero sulle zampe, tra gli applausi di due donne ormai perdutamente innamorate e quindi instupidite.

 

Vermut gioca con qualsiasi cosa, prediligendo oggetti rumorosi ma non troppo: lo irrita l’aspirapolvere e lo spaventa l’accensione di un motore. Per il resto, tutto è pura meraviglia. Caccia spesso fiere immaginarie camminando in laterale e gonfiandosi come sospinto da una bora improvvisa. Si nasconde tra il divano e i giornali per simulare agguati pericolosissimi, planando con le zampe aperte e il petto rosa e caldo in fuori. Noi diciamo che “fa il Vietnam”. Ora è nella fase in cui si arrampica dappertutto: sul divano (proprio perché gli è stato vietato), sui pantaloni mentre si mangia, sulla libreria. Gli abbiamo comprato una sorta di castello peloso, un tiragraffi a più piani, munito di uccelli rosa e bianchi con un ciuffo vaporoso e penzolante. Nel castello ci sono scale, paletti, un’amaca morbida e una stanzetta buia con una porta piccolissima: si tratta di un trabiccolo sempre in mezzo alle scatole che la fantasia trasforma in un mondo pieno di insidie, battaglie e meraviglie.

     

 

Se un micio sia dotato di fantasia è una domanda che mi faccio spesso. Non posso sapere cosa vede Vermut, cosa crede, quale sia il suo approccio alla vita e altre mille domande inutili scovate dall’uomo in chissà quale momento dell’universo, rovinando la magia selvaggia di non aver altri pensieri oltre al cibo da cacciare e la specie da riprodurre.

Le sue giornate sono scandite dal sonno, dalla fame e dalle incredibili scoperte contate in pochi metri, tra un rotolo di carta igienica, il caricatore dello smartphone e il telecomando con cui un giorno si è acceso la televisione da solo. Quando poi rientri a casa e ti si abbandona affusolato intorno al collo, magari dopo una giornata lunga e perdente, sembra pesare di più. Il suo corpicino tigrato e svelto pare esistere per darti una lezione eterna e banale: se siamo ancora qui, io e te, vuol dire che in fondo è andato tutto bene.

 

 

Federica Marangon Mi chiamo Federica Marangon e ho 32 anni. La letteratura è la mia passione: l’ho cercata in ogni luogo in cui ho vissuto e lavorato. Leggere mi aiuta a capire il mondo e ad accettarne la follia. Quando anche i libri non mi bastano, vado in bicicletta fino al mare o a camminare in montagna. E quando il meteo non lo permette, scrivo. Su di me ci sono sempre tante nuvole.

3 thoughts on “IO E VERMUT: innamorarsi di un gatto.

  1. Ciao Federica,
    ho letto tutto il tuo articolo di getto e mi è piaciuto molto. Anch’io ho un gatto che assomiglia moltissimo a vermut e al quale sono molto affezionato, ma mi manca la tua invidiata capacità di esprimere a parole e negli scritti le emozioni.
    Non solo quelle suscitate dal felino.
    Vito

    1. Grazie Vito, sei gentile. L’importante è provarle, le emozioni, cosa non scontata. Saperle scrivere ti permette di condividerle. Chi legge ti rende il cuore più ricco, quindi grazie di nuovo e buona vita col tuo micio.

      Federica

  2. Anche io un giorno ho trovato un cucciolo caduto dal suo nido, una gattina che abbiamocres iuto dandole il latte con una siringa, e via ci ha riempito lacasa e la vita. Accettare che in un giorno di sole abbia attraversato la strada quando sopraggiungeva un veicolo, e ho dovuto raccoglierla la nostra piccola, e maledire mille volte chi l ha ammazzata, non ti dico… Di sicuro ha avuto vita brwve ma strafelice e libera

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *