“BALLATA SENZA NOME” DI MASSIMO BUBOLA: I MILLE VOLTI DEL MILITE IGNOTO

“Lo sconosciuto, il combattente di tutti gli assalti, l’eroe di tutte le ore, ovunque passò o sostò, prima di morire, confuse insieme il valore e la pietà. Soldato senza nome e senza storia, Egli è la storia: la storia del nostro lungo travaglio, la storia della nostra grande vittoria”.

Comunicato ufficiale del Ministro della guerra Luigi Gasparotto per il conferimento della medaglia d’oro al valore militare, 4 Novembre 1921, Roma.

 

“Giorni e giorni di trincea
a scavare gallerie
nere e lunghe come la notte
le mie lacrime per te
nere e fonde come la morte
le mie lacrime per te.
Cade neve sopra neve
tira il vento su di me
in un turbine d’argento
tornerò vicino a te.”

CHI E’IL MILITE IGNOTO?

Maria Bergamas

Il 27 ottobre 1921, nella Cattedrale di Aquileia, Maria Bergamas, madre di Antonio Bergamas, morto in battaglia sul monte Cimone il 18 giugno 1916, deve scegliere un feretro tra undici corpi di soldati non identificati, raccolti nei luoghi delle battaglie più atroci, senza elmetto né mostrine. Maria accarezza ogni bara e quando arriva alla decima, si inginocchia e grida il nome del figlio. I soldati ignoti vengono benedetti con l’acqua del Timavo, un fiume di trincea sulle cui acque si incrociano Croazia, Italia e Slovenia.

Il 29 ottobre la bara scelta da Maria Beragmas viene caricata su un treno destinato a Roma per essere depositata presso l’Altare della Patria. Il vagone attraversa lentamente mezza Italia, sostando in 120 città. Una folla lo segue piangendo, lanciando fiori e corone, agitando fazzoletti. Il treno giunge nella capitale il 2 novembre. La cassa di quercia viene esposta fino al giorno della manifestazione del 4 novembre, la cerimonia più partecipata della storia dell’Italia unita. Alle nove suonano tutte le campane di Roma e partono le salve di cannone, poi tuona un silenzio sovrumano. Per trenta minuti, la folla tace: sono consentiti solo i lamenti delle madri e delle spose. Il sepolcro è costruito con le pietre delle montagne del Grappa e con il marmo del Carso.

Corridoio del Forte Verena, Roana (VI), (foto mia).

L’idea di erigere un monumento ad un milite ignoto venne al colonnello d’aviazione Giulio Douhet nel luglio del 1920, in risposta alle accuse mosse ai soldati da Luigi Cadorna, comandante supremo del Regio Esercito, all’indomani della battaglia di Caporetto. Il generale accusò i militari di essere vili disertori e a loro diede la colpa della disfatta in cui morirono 12.000 uomini, 30.000 furono feriti e 265.000 vennero fatti prigionieri. Si disertava per sopravvivere ad una tattica bellica rovinosa, che consisteva nell’offrire plotoni di combattenti alle mitragliatrici; una pratica talmente violenta da suscitare pietà tra gli stessi nemici. I soldati, strisciando a terra, dovevano aprire i varchi tra i reticolati tagliando i fili con le pinze: in tal modo si offrivano come bersaglio appena uscivano dalla trincea. I gruppi addetti a creare il varco si componevano di soldati invisi ai superiori, mandati al macello per punizione, il più delle volte ubriacati per lavarli dalla paura.

Cima Dodici, Asiago (foto mia).

A Cadorna non interessava il prezzo delle vite umane. In una circolare del 28 settembre 1915, scriveva: “Chi tenti ignominosamente di arrendersi i retrocedere, sarà raggiunto – prima che si infami – dalla giustizia sommaria del piombo delle linee retrostanti o da quello dei carabinieri incaricati di vigilare alle spalle delle truppe, sempre quando non sia freddato prima da quello dell’ufficiale”.

Nel 2011, in nome della verità storica e su suggerimento di Ferdinando Camon, la città di Udine cambia il nome di  “Piazzale Cadorna” in “Piazzale Unità d’Italia”. “Se per battezzare una strada si usa il nome di Cadorna – dirà lo scrittore – non c’è augurio più lugubre per l’esercito italiano. Aver dato il nome di Cadorna ad una via ieri è stato un errore; mantenerlo è una colpa”.

L’iniziativa di Dohuet diventa legge l’11 agosto del 1921. La guerra aveva diviso, ma il culto dei morti univa. Si amava uno sconosciuto come si amava la vita che restava fuori dalle logiche di potere e dalla retorica dell’onore. In quel corpo senza nome, ogni madre ritrovava il proprio figlio, ogni donna il proprio amante, ogni figlio il proprio padre. La “nazione” era un corpo disfatto e celebrato, era un dolore che apparteneva a tutti.

Verso Cima Portule, Asiago (foto mia).

“BALLATA SENZA NOME” di Massimo Bubola.

Veduta dal bivacco “Busa delle Dodese”, Asiago (foto mia).

Sul carro funebre che traghettò la salma del milite ignoto da Aquileia a Roma, vennero incise le parole del IV Canto dell’Inferno: “l’ombra sua torna, ch’era dipartita”. Sono le parole pronunciate da una delle quattro ombre, “né tristi né liete” che accolgono Dante e sono rivolte a Virgilio.

L’ombra è incorporea, non ha colore, non ha qualità e vive della negazione rispetto all’oggetto che la proietta. Nella cultura classica, l’ombra rappresenta la nostra fine.

Umbras” è la parola con cui Virgilio conclude l’Eneide. Riferendosi alla morte di Turno per mano di Enea, canta: “le membra nel freddo si sciolgono e la vita con un gemito fugge, indignata, nelle ombre“. “Indignus” è topico dei morti anzitempo, “dei giovani morti sulle vie della storia per la realizzazione di una lontana utopia” (dal commento di Alfonso Traina).

Vista sull’Ortigara (foto mia).

Il poema che avrebbe dovuto celebrare l’eroico splendore dell’impero romano si chiude con la sommessa celebrazione dell’insensato sacrificio umano richiesto dalla brama di potere. Ciò che distingue l’epica dalla retorica forse è proprio questo: non esistono colori quando i ragazzi muoiono in nome della Patria, diventando ombre destinate a perdere i loro tratti e le loro belle occasioni.

Per il centenario della grande Guerra, Massimo Bubola (cantautore di culto nel panorama della musica italiana) ha scelto di dare un volto alle undici ombre dei soldati ignoti scrivendo “Ballata senza nome”.

Nel suo racconto, Maria Bergamas, dopo la morte del figlio, impara a comprendere la lingua dei morti. Sono voci che salgono dal fuoco del camino ravvivato dal ventaglio di penne di gallina, o brusii in fuga tra le navate della chiesa. La sua disperazione, che è ormai “solo l’ombra di una cordigliera lontana”, è diventata un orecchio in grado di ascoltare le storie di chi non c’è più. Gli undici soldati ignoti chiusi nelle bare le narrano la loro vita e i danno a Maria dei messaggi da portare ai familiari. Lei li consola e li rassicura, promettendo loro di non venire dimenticati.

Massimo Bubola inventa i nomi, le età e i mestieri di ognuno. Fa rivivere le ombre raccontando storie mai avvenute eppure vere nella loro fedeltà ai fatti, ai documenti, alla profondità con cui indaga il sentire di gente semplice che ha combattuto una guerra mai voluta. Tra loro vi è Sante Pesavento, un contadino sepolto sotto un olmo, disteso su un’ansa del Piave, ucciso in un buco di pietra “zeppo di nuvole”. Sante conosceva già l’odore della morte, che è l’odore del sangue e della merda del maiale quando viene ucciso; un odore che si trasforma in striscioline di vapore che “di notte come artigli si allungavano sui muri della casa”. Nato a Terrazzo (Verona), dove “si vedono i Colli Euganei in lontananza come dinosauri in viaggio”, mentre moriva sentiva le mani di sua madre che gli posavano sul petto freddo un maglione confezionato per Natale.

Vista verso il Lagorai (foto mia).

C’è poi Michele Costa, nato ad Albenga, morto sul ghiacciaio della Marmolada, nell’immobile bianco infinito della neve, che “acceca più del bianco del mare” e ti entra nei pori dell’anima, “subdolo e letale come un veleno”. Cerca di star sveglio, mentre la ninna nanna gelata della Regina delle Nevi tenta di strapparlo alla vita. Pensa alla sua sposa nelle notti di luna, quelle in cui si “compravano” i bambini. Pensa all’ulivo piantato per vederlo fiorire un giorno lontano, pensa al bianco del vestito della moglie il giorno del matrimonio, ai suoi capelli neri sul cuscino. “Per te che conoscevi le onde del mare – gli dirà Maria – la valanga parlava una lingua straniera. Non parlava né italiano né tedesco, ma la lingua delle aquile e dei temporali”.

Foto di un tronco nei pressi di Stoner (Enego), foto mia.

C’è infine Francesco Barducci di Goro, giovane in attesa di essere ordinato sacerdote, che si chiede per quale perverso ragionamento uccidere per la patria sia un modo per rispettare la volontà di Dio, come ha detto il cappellano. “Ma come potevo accettare una tale logica, contraria alle fondamenta del Vangelo? E questo perverso ragionamento come poteva non valere per un cattolicissimo monaco austriaco che pregava per la pace quanto me?”. In trincea viveva in un tanfo costante, arrotolato in un’umida coperta “piena di pidocchi e brutti sogni”. Un giorno si incammina per il Monte Calvario, una delle alture del Podogora, a Gorizia, in un intrico di reticolati divelti, dove si trovavano “membra umane lanciate come concime sui campi, appese agli spuntoni degli alberi a brandelli”, dove “tutti urlavano di tutto”. Soccorre un soldato ungherese, che gli si rivolge in latino, chiedendogli di assolverlo da ogni peccato. Muore con gli occhi pieni di gratitudine, mentre il buio si abbassa su lui e sulla montagna. Morirà anche Francesco poco dopo, ucciso da un cecchino, in pensiero per il dispiacere che avrebbe dato a suo padre.

In “Ballata senza nome”, Maria Bergamas sceglierà il corpo di Vittorio Savodelli, falegname della provincia di Bergamo. “L’amore è un’infezione antica” racconta alla donna, “anche qui in mezzo a un pandemonio di rumore e distruzione, c’è un viavai continuo di lettere e di sospiri, di timbri di labbra col rossetto e di lacrime bistrate sulle carte da lettera e ciglia e petali e ciocche di capelli nelle buste”. Oscurato dall’ombra di un fratello morto piccolo, “allattato a latte e lacrime”, Vittorio non è mai stato amato, ed è per questo che Maria lo vuol portare con sè all’altare della patria: “Che lo amino ora e per sempre tutte le madri, i padri, i figli e le donne d’Italia”.La cappa di nuvole elettriche che galleggia fuori dalla Basilica si trasforma in pioggia, e gli undici corpi viaggiano in cerca di pace.

Durante la presentazione tenuta nel borgo di Cison di Valmarino (sui colli trevigiani) Massimo Bubola si è commosso più volte nel leggere le sue stesse parole, come fossero davvero confessioni di soldati e non invenzioni. Ha percorso tutti i sentieri che furono teatro di massacri per riuscire a tradurre le immagini e ha arrangiato canti di guerra tradizionali e nuove canzoni nel disco “Il testamento del Capitano”. “La retorica” – ha detto – “è come lo zucchero filato: ti riempie la bocca ma dopo un istante hai solo una puntina di zucchero sulla lingua”. Per questo ha scelto di celebrare gli uomini, non gli eroi; la paura e non il coraggio; l’amore per i loro cari e non per una vittoria che è costata loro la vita.

 

Appendice: i Giornali di Trincea.

Veduta dal forte Verena (foto mia).

All’inizio della Grande Guerra, alcuni combattenti scrivevano dei brevi giornali da consegnare nelle baracche del fronte. Si trattava per lo più di caricature o vignette satiriche litografate o riprodotte con il velocigrafo, a volte addirittura manoscritte. Dopo la disfatta di Caporetto, il Governo italiano, sentendo la necessità di intervenire con azioni di propaganda diretta, costituisce un apposito “Ufficio di propaganda” presso il Comando Supremo (il servizio “P”) con diramazioni presso tutti i comandi minori, con l’incarico di divulgare linee guida militari ma anche risollevare lo spirito dei soldati. Dentro ai giornali di trincea c’era spazio anche per rebus, lettere, vignette, persino giochi a premi. In essi si trova la rappresentazione quotidiana della guerra e l’inganno con il quale si mandava al massacro una generazione di ragazzi.

Di seguito alcune immagini tratte dal libro di Mario Isnenghi, “Giornali di Trincea 1915-1918”, in un’edizione Einaudi del 1977.

Federica Marangon

GLI SPARI SOPRA SONO PER NOI. Lo strano caso di Orfeo Dargenio.

Il cavaliere oscuro

Anche se i social lo hanno già processato, la faccenda è al vaglio degli inquirenti. Il protagonista è Orfeo Dargenio, vice sindaco con delega alla sicurezza del Comune di Solesino, nonché agente della polizia locale a Monselice. Ieri, alle ore 18.50, presso la stazione di Monselice, ha sparato cinque colpi in aria per fermare l’uomo che pochi minuti prima aveva borseggiato un’anziana signora. Un testimone ha visto il ladro mentre fuggiva e ha allertato la pattuglia che si trovava nei paraggi. Il collega di Dargenio lo ha inseguito a piedi e Dargenio in macchina. Quando l’ha visto entrare in stazione, l’ha rincorso e, per intimarlo all’alt, ha sparato in aria, mettendolo il fuga. Il malvivente sarebbe poi tornato in stazione verso le 21.15, dove è stato catturato dai carabinieri.

Al di là degli accertamenti del caso, ci sono dei tratti oscuri in questo affare e sono le dichiarazioni che lo stesso Dargenio ha rilasciato ai quotidiani (Il Mattino di Padova, il Corriere del Veneto, il Gazzettino) e a Rete Veneta. Nelle parole di Dargenio c’è qualcosa che non torna.

“Aveva una pistola!” racconta al Gazzettino. “L’ha tirata fuori in un attimo da un marsupio, o uno zaino”. “Non sono sicuro – dice subito dopo – è durato tutto pochi istanti”. Estrarre la sua arma è stata comunque una “questione di freddezza”. “Poi non so se la pistola fosse vera – continua – o magari un’arma giocattolo o una scacciacani. Ma cavolo! Era una pistola. E me la stava puntando contro”. “Non me l’ha puntata contro” – dichiara al Mattino di Padova – “ma in quel momento poteva accadere di tutto, per questo ho deciso di sparare”.

Dopo aver rincorso il malvivente e avergli chiesto i documenti – dichiara al Mattino di Mattino di Padova – “l’ho fermato e mi sono accorto che aveva una pistola, l’ha tirata fuori e ho estratto la mia. Lui allora mi ha voltato le spalle e si è messo a correre per fuggire. Ho sparato dei colpi in aria, quattro o cinque, non ricordo bene”. Nell’intervista rilasciata a Rete Veneta, invece, se li ricorda: “ho sparato in aria tre colpi di pistola. Questo è servito per farlo desistere e poi è stato arrestato dai carabinieri”. Ma non era fuggito? Sì, è scappato sui binari proprio “mentre arrivava un treno” (o due treni, come racconta invece al Mattino) ed è stato preso dalle forze dell’ordine quando è tornato in stazione alle 21.15, “ma ovviamente si era liberato di tutto: niente arma, niente borsa (o marsupio o zaino, ndr?)”. Pistola sì o pistola no, “l’ho visto bene in faccia” e infatti secondo il Gazzettino ne ha dato una descrizione talmente accurata da poterlo individuare grazie alle immagini delle videosorveglianza.

“In quel momento ero molto lucido” dice al Corriere del Veneto e ha pensato “meglio un brutto processo che un bel funerale” perché “so bene cosa si rischia in questi casi: la pistola poteva essere un giocattolo o essere scarica”. Nell’intervista integrale pubblicata da Rete Veneta stasera dice: “mi sono trovato di fronte ad una persona che ha estratto la pistola e in quel momento mi sono detto: chi prima agisce porta a casa la pelle”. Ha quindi sparato in aria per intimorire il ladro e lo rifarebbe ancora. “Il soggetto nella fuga brandeva la pistola – continua – è una situazione abbastanza cruda”, mai successa in 15 anni di carriera. Poi ha sparato “altri due tre colpi” e alla fine dovrebbero essere cinque. La giornalista racconta che “qualche minuto più tardi” (quindi non alle 21.15?) il malvivente viene bloccato dai carabinieri e per ora è soltanto denunciato.

A Camilla Bovo del Gazzettino afferma tuttavia che “non siamo mai pronti per queste situazioni” (per “noi” intende i quattro agenti di pattuglia che girano armati per le strade di Monselice, ndr) e “prima o poi a qualcuno di noi doveva succedere qualcosa del genere. Più ci ripenso e più l’adrenalina se ne va e sale la paura. Davvero, non siamo pronti ad episodi del genere”.

Gli spari sotto 

Quest’estate Dargenio era balzato agli onori delle cronache per aver deciso di armare i vigili di Solesino con un “mitra”, che in realtà era una semiautomatica austriaca Glock (calibro 9X21), con puntatore di precisione. “Se si vogliono servizi mirati di prevenzione e repressione della criminalità – disse allora – servono anche le giuste attrezzature per gli operatori di polizia impegnati” poi seguirà il dovuto addestramento per preparali al peggio.

 

In gioventù è stato un militante di Alleanza Nazionale. Nel 2006  , a Padova, viene picchiato da alcuni autonomi all’uscita da un convengo di partito sul sostegno alle forze armate.

Nel paese di Sant’Elena raccontano che dopo essere stato cacciato dal prete con la sua squadra di calcetto perché bestemmiavano durante gli allenamenti, lo avrebbe denunciato per occultamento di cadavere a seguito del ritrovamento di presunte ossa durante i lavori di ampliamento della canonica (accusa rivelatasi infondata).

Nel 2014, nella spiaggia di Sottomarina, difende un’ambulante straniera aggredita dal proprietario dello stabilimento Splash. Lei si chiama  Fiorellina ed è “minuta come il suo nome”. Nonostante ciò, il titolare la malmena e viene fermato dall’intervento di Dargenio.

Nel 2012 organizza a Solesino delle “Ronde”, ovvero un gruppo di cittadini che si ritrovano piazza per “cercare di aiutarsi a vicenda contro questo fenomeno criminoso che non sembrava arrestarsi in nessun modo”. Viene preso come punto di riferimento del gruppo per la posizione lavorativa ricoperta, spiegando che l’unico modo per poter arginare l’escalation di furti era di collaborare attivamente con le forze dell’ordine chiamando tempestivamente il 112, senza farsi spingere in nessun modo da atteggiamenti di giustizia privata, per non passare, come alle volte è accaduto, dalla parte del torto. L’amministrazione di allora lo denuncia per procurato allarme e istigazione a delinquere, ma la denuncia viene archiviata.

Dichiarerà: “Sono felice che la Magistratura abbia deciso di archiviare le denunce nei miei confronti e delle altre persone coinvolte in questo caso! Non abbiamo fatto nulla di male, c’eravamo proposti di costituire un’associazione per aiutare i nostri paesani ed invece siamo stati messi sullo stesso piano dei delinquenti e la cosa è a dir poco sconvolgente! In questa vicenda a perderci, ancora una volta sono state le persone oneste, le quali chiedevamo solo di aiutare i propri paesani e poter collaborare con gli organi preposti di Polizia per cercare di arginare questa ondata di criminalità e furti che colpiva Solesino”.

 

Nel 2016, in qualità di rappresentante della polizia locale di Monselice, invita i cittadini di Solesino, Sant’Elena ed Este a non uscire di casa per l’incendio avvenuto presso la ditta “Nek”, che all’epoca trattava rifiuti plastici. “Non sono un medico”, scrive, ma per “senso civico” allerta i concittadini dato che “l’aria ha tirato e continua a tirare” da quelle parti. Si brucia plastica, ed è pericoloso, nonostante l’Arpav non abbia lanciato alcun allarme in zona.

Dal 2014 diventa “il Vigile Buono” iniziando la battaglia contro lo scout speed, vicenda ben nota agli abitanti di Solesino, al centro della campagna elettorale che ha portato il suo gruppo alla vittoria delle amministrative del 2018.

Gli spari social 

Sui social Dargenio è già un eroe e chi si permette di contestarlo viene accusato di sottomettersi ai delinquenti, di non aver mai provato cosa significhi essere derubato e di sperare di non aver mai bisogno delle forze dell’ordine.

Lo scontro più feroce riguarda l’interpretazione dell’art.53 del Codice Penale, che definisce le caratteristiche dell’uso legittimo delle armi da parte di un pubblico ufficiale. Alcuni lo citano per definire eccessivo il comportamento di Dargenio e altri ne sottolineano “all’uopo” dei passaggi importanti, tipo quello in cui l’uso della pistola sarebbe occorso ad “impedire la consumazione di un disastro ferroviario” (forse per il fatto che l’episodio è avvenuto nei pressi della stazione).

La maggioranza comunque è con Orfeo. “Il delinquente buono è quello morto…doveva mirare alle gambe…altro che per aria” scrive un utente; “Orfeo a sparato in aria fin troppo diligente…e che c…!!!“; “doveva portargli dei fiori?“.

Chi lo critica è un buonista che “ha rovinato L’Italia” oppure un “buonista con il culo degli altri” (“cene fossero di agenti così!!!!!“). Alla buonista più buonista di tutti, viene replicato “copate che se ora (traduzione: ucciditi che è ora)” con due like e due smile (forse ora sono di più, controllerò).

Si prosegue poi con “ha fatto LA COSA PIU’ GIUSTA CHE POTESSE FARE“, inneggiando alla rivolta: “noi si deve andare in piazza e prendere a calci chi li fa venire (il presunto malvivente è marocchino, ndr) e li protegge ormai siamo al limite“. Chi non considera Dargenio “un bravo vigile che x il solo fatto di aver sparato in aria ora subirà un processo ma che azzo di legge e questa il vigile vice sindaco a fatto solo il suo dovere bene e bravo” viene inviato a curarsi da un “bravo medico“. A difenderci, infatti, c’è “finalmente uno coi marroni!“, che sono pure di stagione.

In alcuni casi ci sono anche battibecchi di natura personale non meglio identificati: “bamboccia viziata” viene apostrofata un’utente un po’ critica sulla vicenda, la quale risponde “bamboccio viziato dillo ai tuoi figli dato che mi hai tolto il saluto“.

Le parole sono finite” scrive un utente sibillino nello stesso gruppo facebook di paese. E, in maniera altrettanto sibillina, conquista 2 like e uno smile.

L’EUTANASIA E’ IL CAPOLAVORO DELL’INDIVIDUALISMO

“Fernando Pessoa chiese gli occhiali
e si addormentò
e quelli che scrivevano per lui
lo lasciarono solo
finalmente solo…”

R. Vecchioni, Le lettere d’amore. 

 

LA TANGENZIALE DI PADOVA COME IL TAGO DI LISBONA

Alle otto del mattino la tangenziale di Padova offre uno spettacolo surreale nella sua consuetudine. È una lenta carovana di SUV e utilitarie scassate che sputa fumo e musica come fosse un palcoscenico lungo chilometri. Si suona il clacson per emulazione e la precedenza diventa un diritto inalienabile. Gli speakers della radio sono troppo allegri per mettermi di buon umore e i notiziari troppo terribili, così ho iniziato ad ascoltare i classici letti da Valter Zanardi nel suo canale YouTube (Valter Zanardi letture). Zanardi è un neurologo diplomato in pianoforte che legge per gli altri “per sentirsi utile”, “nella speranza di lasciare un segno del mio passaggio terreno” (Valter Zanardi, “Il neurologo mite”, da Il Fatto Quotdiano)

Valter registra audiolibri per conquistare una goccia di eternità e io lo ascolto per dare senso alle mie ore in tangenziale, che l’affollata solitudine del traffico rende più lunghe delle ore normali. La prima opera ascoltata è stata “Il libro dell’inquietudine” di Fernando Pessoa. Bernardo Soares (uno degli eteronimi di Pessoa) se ne andò prima di finirlo, lasciando ai critici l’ardua impresa di rammendare i frammenti di “un’autobiografia senza fatti”, una serie di pensieri che il contabile di Rua Dos Duradores si rovescia addosso casualmente. Ogni pagina è una collana di perle pazientemente ordinate su un filo che poi viene spezzato, lasciandole cadere in una danza rovinosa e lucente. Pessoa non racconta una storia, ma attimi di rivelazioni avute durante giornate ordinarie, quasi noiose. Si tratta di un flusso continuo di verità inconcludenti, talvolta contraddittorie, sulla vita, sulla morte e su tutto ciò che ci passa in mezzo. Quell’opera è un incantesimo, e chi l’ha letta sa cosa intendo.

Il filo che unisce le perle della collana è la domanda che mi pongo anch’io mentre sgrano le marce in tangenziale, ovvero: noi, qui, che ci facciamo? Siamo passeggeri anonimi, foglie secche che ronzano in un mulinello universale, “immondizia residuale di stelle e di anime”. L’erba crescerà lo stesso senza di noi, dice Soares, come si ergono monti antichissimi. Noi, invece, scompariamo in mete oscure, lasciando il nostro corpo come un abito abbandonato di cui non si ha più necessità. Che senso ha – si chiede – tutto l’amare, il lavorare e il soffrire di persone che non faranno nulla di straordinario nella vita?

Quelle di Pessoa sono riflessioni delicate nella loro impudente onestà e lui le tesse guardando il Tago, il fiume che attraversa Lisbona e si gonfia fino a confondersi con l’Oceano. Lisbona stessa è una città inquieta ed esitante: è la fine dell’Occidente Europeo, ma anche l’inizio dell’avventura atlantica. È la città in cui Calipso perse la testa per Ulisse e, divorata dalla rabbia dell’abbandono, si tramutò in serpe velenosa. Pessoa è incantato dalla “maestà irregolare” di Lisbona, dalla sua luce obliqua, dai gabbiani bianchi che attraversano il cielo nero mentre transita una massa minacciosa di pioggia sulla Baixa. Al chiaro di luna anche l’accozzaglia di ferraglie e piloni del porto di Alcantara non ha nulla da invidiare alla bellezza della natura. Ascoltando le sue parole, la tangenziale di Padova diventa il mio Tago e mi annego nelle visioni lucide di uno stregone della letteratura novecentesca. Il tergicristallo infilza le prime foglie gialle degli alberi di Via Uruguay e l’autunno ricorda la fine di tutto. L’autunno è Pessoa stesso, sdraiato nella bruma calante di una Lisbona che non ho mai visitato.

“Il libro dell’Inquietudine” è la miglior espressione del paradosso ontologico insito nella letteratura. Bernardo Soares, insignificante e inesistente protagonista di una storia inconcludente, diventa un individuo immortale sul quale non si smetterà mai di riflettere. E lo diventa perché Soares rappresenta un po’ tutti noi e il nostro doppio infinito: la ricerca di una completezza che ci faccia sentire unici e la rivelazione che è questa smania a renderci uguali a tutti gli uomini di tutti i tempi. È il nostro individualismo a renderci umani.

La letteratura, scriveva Pessoa, “è la conferma che la vita non basta”. E in effetti la vita non basta mai perché tutti tentiamo, con le nostre buone o cattive azioni, di sopravviverle. Anche quando la nostra vita biologica cessa, speriamo che quella “biografica” – la nostra storia e la nostra identità – continui a lasciare flebili segni.

“NEURONE SPECCHIO” DELLE MIE BRAME

Un giorno, avendo bruciato tutti i giga del telefono (la registrazione di Zanardi dura più di dieci ore), ho acceso la radio. Si parlava dell’epocale sentenza Cappato, l’attivista radicale che ha accompagnato Dj Fabo in Svizzera per consentirgli di morire, commettendo il reato di istigazione al suicidio. L’opinione pubblica era abbastanza d’accordo nel considerare quella di Marco Cappato una “colpa innocente”, ma la Legge era in imbarazzo. Il dolore non permetteva a Fabiano Antoniani di vivere come avrebbe voluto e, non essendo fisicamente in grado di porre fine alla sua sofferenza, ha chiesto la mano ad un amico. Marco Cappato è stato accusato di un delitto infame quando, in realtà, ha commesso la più umana delle azioni, cioè realizzare l’ultimo desiderio di una persona a cui voleva bene. Alla fine è stato graziato dalla Corte Costituzionale, ma la norma non è cambiata nella sostanza, tanto che gli stessi giudici hanno definito “indispensabile l’intervento del legislatore”  (“Cosa cambia dopo la sentenza Cappato” da “Il Post”). “Suicidio assistito” ed “eutanasia” sono due pratiche distinte, ma l’impasse costituzionale su cui si ragiona è il medesimo: siamo talmente liberi da poter decidere di farci uccidere? Come nessuno mi può costringere a morire, perché qualcuno mi può obbligare a vivere?

Pessoa scrutava il senso dell’esistere passeggiando sul Tago e sorseggiando Porto, mentre le speculazioni psicologiche galleggiavano inquiete. Cercava, senza successo, risposte a domande che ogni uomo prima o poi si fa, al di là dell’orizzonte culturale ed etico verso il quale cammina. Chi convive con una sofferenza tale da pensare alla morte come la più dolce delle soluzioni, le risposte le ha già trovate. Purtroppo la Legge non è la Letteratura, e nell’affannoso tentativo di rappresentare equamente tutti gli individui, finisce per non rassomigliare a nessuno di loro. La Legge dello Stato appiattisce le singole identità come fosse un batticarne pur se l’intento è  di proteggerle tutte da buon “pater familias”.

In questo senso immagino lo Stato come il “Leviatano” di Hobbes: un mostro sovrano il cui corpo è formato da tutti gli individui- sudditi, che guida e comanda. Secondo Hobbes, l’essere umano è istintivamente bramoso, immerso nell’insaziabile desiderio di avere di più degli altri. La guerra perenne è quindi una condizione naturale per l’umanità. Ma l’uomo ci tiene alla propria sopravvivenza, e per non rischiare continuamente la vita, cede un po’ della propria libertà e bramosia al sovrano, a patto che tutti facciano altrettanto. Diventa così meno libero ma più sicuro e il mondo acquisisce ordine e quiete.

L’immagine nel frontespizio del “Leviatano” di T. Hobbes.

Nonostante il trattato del 1651 sia stato interpretato come il fondamento ideologico dell’assolutismo monarchico, di fatto decretò l’ingresso nella teoria politica di una caratteristica consustanziale dell’uomo: l’egoismo. Da allora, mentre fioriva la media borghesia e l’anima del commercio decideva come far girare il pianeta, qualsiasi sistema sociale ha dovuto fare i conti con l’individualismo.

Se il paradosso ontologico della Letteratura è che puoi dare significato all’insignificante scrivendone – e se quello della Legge è tentare di rappresentare ogni individuo finendo per non assomigliare a nessuno – il paradosso dell’uomo è che è uguale agli altri nel sentirsi unico, nel porre la propria esistenza prima di qualsiasi altra cosa. Anche quando bramiamo la nostra fine stiamo mettendo la nostra esistenza prima di qualsiasi altra cosa, perché la vita come esperienza individuale non è quella biologica ma quella biografica. Il dolore fisico ci trasforma e ci annulla, può ridurci a non essere più chi eravamo: andarcene prima è un modo per affermare la nostra identità.

La perenne lotta per la sopravvivenza di cui parlava Hobbes non è solo una condizione storico-filosofica, ma un precetto dell’evoluzione umana. Da Darwin in poi sappiamo che siamo stati programmati per essere egoisti e belligeranti. Eppure non tutta la neurobiologia vien per nuocere: nel 1995 l’equipe del Professor Rizzolati individuò un’area del cervello in cui operavano i cosiddetti “Neuroni Specchio”, cellule che si attivano quando ci mettiamo in relazione con le emozioni degli altri, permettendoci di “sentire” come si fosse l’altro. Si tratta di un processo affascinante e intricato, che Cristina Cecchi in un illuminante articolo di Micromega ( “Egoista o altruista? La natura umana da Hobbes ai neuroni specchio”) pone in parziale contraddizione col disfattismo hobbesiano donandoci un briciolo di speranza . Nel momento in cui proviamo il dolore dell’altro fino ad immedesimarci con esso, noi siamo l’altro e il nostro individualismo sfrenato diventa la leva per un’empatia destinata a tirar fuori il meglio da entrambi.

SE POI E’ COSI’ DIFFICILE MORIRE

Il meccanismo fisiologico dell’empatia è talmente forte da indebolire il timore verso l’autorità, sia essa rappresentata dal Leviatano che ci vuole suoi sudditi o dalla Legge a cui bisogna obbedire.

Negli anni Sessanta, lo psicologo di Yale Stanley Milgram scrisse un libro intitolato “Obbedienza all’autorità” in cui illustrò un esperimento sociale di cui ancora si discute. I volontari reclutati dovevano insegnare una sequenza di parole ad alcuni allievi, che in realtà erano complici dell’esperimento. In seguito dovevano far ripetere agli allievi le sequenze di parole. Nel caso in cui la risposta fosse stata errata, i volontari avrebbero dovuto premere un pulsante che infliggeva al complice una scossa elettrica a voltaggio sempre maggiore. Il risultato fu che il grado di obbedienza all’autorità (il medico che impartiva gli ordini) calava sensibilmente quando diminuiva la distanza tra insegnante e allievo. Nel caso in cui l’allievo e l’insegnante erano connessi via radio senza vedersi, il 62,5% dei volontari eseguiva l’ordine, seppur con una certa reticenza. Nel caso in cui l’insegnante era vicinissimo all’allievo e doveva spostargli il braccio su una piastra per calare la scossa, il 70% dei volontari si rifiutò di eseguire l’ordine. Qualcuno pianse, svenne, gridò che era un trattamento inumano. Toccare (letteralmente) con mano una vittima sofferente rese la maggior parte dei volontari ribelli all’autorità ed empatici.

La Legge non cammina nelle corsie degli ospedali, non sente il respiro agonico di chi sta morendo, quel soffio che pare provenire dall’Ade: oscuro, pesante e ormai lontanissimo. La Legge non guarda negli occhi chi chiede una fisiologica pietà, più difficile da argomentare che da attuare. La Legge non assiste anziani stanchi di un accanimento in certi casi grottesco, praticato in nome della medicina difensiva e non in quello di una cura dignitosa e doverosa.

Marco Cappato si è ribellato all’autorità, così come fanno, silenziosamente, numerosi medici che in diverse indagini anonime hanno ammesso di sospendere cure inutili disobbedendo ai protocolli sanitari (Fine vita: esito ricerca dell’Istituto Mario Negri) e come chiede il il 93% degli italiani dichiarandosi a favore di una legge sull’eutanasia.

Nei dieci anni in cui ho lavorato in Casa di riposo, la morte è stata oggetto di quotidiane discussioni tecniche ma anche di profondi interrogativi morali. Mentre percorro la tangenziale in autunno, ascoltando Pessoa interrotto dalla notizia della sentenza Cappato, ripenso ai colleghi che ho avuto la fortuna di incontrare. Rivivo la delicatezza struggente con la quale riuscivano a stare accanto a chi moriva e ricordo, con profonda emozione, la frase espressa appena staccavano gli occhi dai corpi ormai disabitati: “io, questa fine, non la vorrei fare mai”. Spesso ci siamo stupiti di come si trasformava il volto delle persone che morivano dopo sofferenze lunghe e spesso insensate: era disteso, quasi ringiovanito, erano finalmente “loro”.

Io credo che non esisterà mai una Legge perfetta sull’eutanasia, ma so che ne esiste una in grado di elevare la nostra componente biologica empatica al Bene Comune ed è l’imperativo categorico kantiano: “agisci in modo che la massima della tua volontà possa sempre valere come principio di una legislazione universale”, cioè tratta gli altri come vorresti trattassero te e fanne una legge valida per sempre. Non occorre (e di certo non basta) un Leviatano impassibile per farci realizzare la legge morale che teniamo scritta nel nostro nocciolo di umanità e che ci permette di essere completi e infiniti.

L’ha detto bene Ferdinando Camon nel 2008, all’indomani del caso Englaro. Cito le sue parole perché esprimono chiaramente come l’eutanasia sia il vero capolavoro dell’individualismo:

“Quando il malato irrecuperabile, in coma vegetativo, vien tenuto in vita perché non c’è una Legge che ne autorizzi la morte, tenendolo in vita non si ama il malato, si ama la Legge. Quando la Chiesa, di fronte a un malato che non ha più alcun rapporto con noi, è perso nell’incoscienza da un decennio e mezzo, dice che va tenuto in vita perché la vita è di Dio, la Chiesa non ama il malato, ama Dio. Quando il medico dice che la sua Scienza gli insegna come tenere in vita e non come far morire, e che perciò lui terrà in vita anche l’incosciente irrecuperabile, quel medico non ama il malato, ama la Scienza. Ma allora chi ama il malato? Chi vorrei che venisse in mio aiuto, se mi trovassi in quelle condizioni, privo di ogni speranza? Uno che amasse me”.

Uno che amasse me.

UN LIBRO SU TUTTI E UN EPITAFFIO

Un po’ per curiosità e un po’ per lavoro ho letto diversi libri sul tema. Mi sento però di consigliarne uno solo, definitivo nella sua precisione reportistica, sconvolgente nella profondità riflessiva e soprattutto aperto a qualsiasi tipo di prospettiva legale, filosofica e umana. È di Andrea Tarabbia e si chiama “La buona morte. Viaggio nell’eutanasia in Italia”. Un’opera indispensabile.

“Il cielo stellato sopra di me, la legge morale dentro di me” – l’epitaffio che Kant volle sulla sua tomba – era una delle citazioni preferite del mio migliore amico, che se n’è andato dopo una lunga malattia. Ogni volta che la leggo la recito come avrebbe fatto lui e mi viene da sorridere.

Federica Marangon

 

 

 

 

 

VITA DI UN ALBERO RACCONTATA DA SE MEDESIMO

Il Festival delle Foreste di Longarone 

Domenica 15 Settembre a Longarone si è concluso il “Festival delle Foreste”, una fiera dedicata al futuro dei boschi italiani. Oltre agli attrezzi da boscaiolo e macchine per trasportare tronchi, c’era un’esposizione di sculture lignee di grande fascino e una mostra fotografica sugli alberi spazzati via dalla tempesta Vaia (ne sono caduti 14 milioni, un numero inimmaginabile). Erano presenti diversi volontari che in questo anno hanno ripulito i sentieri e curato le foreste delle Dolomiti, oltre a ripopolarle con dei nuovi esemplari (I 400mila baby alberi che faranno rinascere le foreste delle Dolomiti).

                    Poesia di Tiziano Fratus

Una settimana prima, al Festival della Letteratura di Mantova, avevo ascoltato Tiziano Fratus che si autodefinisce un “cercatore di alberi“. E’ uno scrittore schivo e intenso che conosce il mondo vegetale con piglio scientifico ma ne parla da innamorato. Lo conosco da anni e lo leggo sempre con una certa inquietudine perché sembra far parte di un mondo diverso dal mio. Probabilmente gli anni trascorsi nelle foreste hanno plasmato il suo sentire e il suo linguaggio rendendolo naturalmente intricato e oscuro, proprio come una foresta.

Tutto sommato l’Italia è ancora un bel polmone verde, un po’ malandato ma pieno di speranze. La nostra è una terra ricca di alberi monumentali, antichi ed enormi. Uno di essi si trova a Caprino Veronese: si tratta del “Platano dei cento bersaglieri” ed è il più grande d’Italia. Sono andata a vederlo e mi ha raccontato la sua storia.

Vita di un albero raccontata da se medesimo 

Tu chiami “vegetale” la creatura che dorme un sonno senza sogni e vive un’anonima quiete sotto le stelle. Un essere immoto, privo di fiato e di senso, da usare come sfondo in una sorridente fotografia.

Eppure in questo mio enorme tronco, in queste fondamenta segrete fin su nella chioma infinita, si infiamma da settecento anni un mondo di magia.

Sono nato nel 1370 da un achenio piumoso, un semino con ali potentissime fuggito dal becco di una cinciallegra ingorda. Ho ruzzolato per l’azzurro, sospinto dai venti tiepidi della primavera e sono finito in questo paesino ai piedi del Baldo, a due passi dal Garda. Pensa quanta forza occorre per diventare il Platano più grande d’Italia. Io sono un’esplosione lentissima di vita sapiente. Nel mio codice genetico sono scritte le leggi che sfidano la gravità, perché riesco a raccogliere la linfa da un brulichio sommerso di terra e microrganismi e spingerla fino alle nuvole, trasformando la vertigine in inspiegabile bellezza.

La mia infanzia è stata un’avventura tra la fine del Medioevo e l’alba del Rinascimento. Allora la pieve era piena di verde e bisognava lottare con gli altri alberi per trovare un po’ di luce. I miei fotorecettori dovevano essere i più vispi di tutti: i raggi di sole trasformano il carbonio in acqua e zucchero e mi tengono vivo. Se fossi cresciuto rapidamente, la mia chioma sarebbe stata più alta e io avrei trovato più cibo nella dispensa luminosa.

Agli inizi del Cinquecento, qualche mercante sostava nella mia ombra contando i denari della sua saccoccia e raccontava di un Paese lontanissimo, l’America, dove cresceva un platano come me, il “Sicomoro”. Io sono della specie “orientalis” e lui era “occidentalis”. Secondo i vecchi platani di Caprino, i nuovi arrivati dalla Merica ci avrebbero rubato il posto. Saremmo spariti a suon di accettate, come le teste dei rei sotto la ghigliottina. Io non ascoltavo le onde sonore stonate e conservavo la quiete tappandomi i pulvini come i gatti quando abbassano le orecchie alla vista del nemico o come la Mimosa Pudica del professor Darwin, che si ritrae appena la sfiori. E infatti, nonostante gli oscuri presagi dei vecchi platani, sono ancora qua a mostrare la mia esistenza imponente ai biologi, ai turisti, ai bambini che mi abbracciano in un girotondo di solletico.

La vostra storia è veloce, corre nei secoli, si ammazza di poteri e lotte per la supremazia. Io sopravvivo con la luce e i silenzi. I tramonti mi pettinano la chioma, la neve accarezza la corteccia ruvida e i nodi tessuti dai secoli, dure matasse di fotosintesi in cui rimane imprigionato il vento e qualche moscerino.

Io sono un albero caro agli dei. Il mio nome significa “dalle larghe foglie” e fui sacro alla Madre Terra perché la mia foglia sembra una grande mano che protegge e benedice. In Grecia mi piantavano vicino ai templi e sotto le mie fronde si unirono in matrimonio Giove e Giunone. E così, quando nel 1630 arrivò la peste nera, tanti fedeli accorrevano ai piedi dei miei rami e pregavano per allontanare il male. Le campane non erano mai a festa e i monatti, con i nasoni ripieni di aromi profumati per sopportar l’olezzo della carne putrefatta, piangevano sotto la maschera lugubre. Tutto il giorno era un andirivieni di carri con tante lenzuola bianche da farli sembrare velieri in corsa tra i sassi. Mentre la morte contagiava la vita riducendola in bubboni di pece, il mio tronco si ergeva cercando di respirare l’aria pura del Paradiso.

Sotto i tuoi piedi, proprio lì, un po’ più in giù del colletto, c’è un universo laborioso. Le mie radici man man che scendono si fanno sempre più sottili, fino a diventare apici grandi come capocchie di spillo. Gli apici esplorano il terreno scovando i parassiti insidiosi e le cose buone da mangiare. Poi passano le informazioni ai funghi e alle altre radici, in un’alleanza costante che porta bene a tutti: noi piante campiamo in armonia. Ci diverte e ci spaventa vedere voi, affannati sulle vostre gambe, sempre impegnati a scannarvi, convinti di vivere più a lungo se rubate la roba ai fratelli. Guardate me, guardate noi: l’evoluzione è una danza cooperativa e si balla solo se si rimane vicini, dividendo fortune e sventure.

Qualcuno lo capì, circa un secolo dopo la peste. Filosofi e poeti iniziarono a predicare l’uguaglianza e la giustizia. Il popolo li ascoltava e pian piano alzava la testa dalle zolle di terra di cui era schiavo, come me quando cerco la luce e mi brillano le galle percosse dai raggi mentre il sole dirige il suo concerto muto. E infatti questi uomini pieni di coraggio si facevano chiamare “illuministi”. I più giovani facevano innamorare le fanciulle raccontando la favola di un mondo migliore, mentre passeggiavano attorno alle mie fronde. Mi incidevano la corteccia con un cuore e io scricchiolavo in silenzio per non disturbare i ferormoni che si immischiavano in un timido bacio. L’amore è un’armonia di particelle elementari in cui il tutto non è una somma, ma qualcosa di nuovo. Anch’io sono amore: la mia altezza è un cumulo ordinato di pulviscoli spavaldi che un giorno hanno scelto, pericolosamente, di stare insieme.

Il tronco è il mio vanto. Ogni tanto qualcuno si siede sopra e sorride. Dovete abbracciare gli alberi come i koala che si rinfrescano dal torrido deserto stando appesi all’eucalipto. I microscopici terpeni che attraversano la mia altezza curano le vostre cellule ingrigite dalla città. Ci abbracciavano i maestri del Tao nella Cina antica e i Pellerossa lasciavano i neonati ai piedi delle sequoie per imboccarli di vita. I dottoroni statunitensi scrivono “please hug the trees” all’ingresso dei grandi parchi di conifere e ho sentito di un architetto italiano che ha progettato un ospedale per bambini a forma di casa sull’albero, “perché è così che lo sognano”.

Il mio tronco è rugoso e opaco per una punizione di Jaweh. Quando il serpente dell’Eden tentò Eva, temendo una vendetta divina, chiese ad un platano di nasconderlo nelle sue cavità allora lisce e lucenti. Ma quando Dio se ne accorse, scagliò contro l’albero la sua ira, trasformando la corteccia in un ammasso ruvido e opaco come la pelle del serpente.

Eppure io credo che Jaweh mi abbia perdonato perché dentro di me avvengono miracoli. La pressione radicale permette alla linfa di attraversarmi da sotto in su per 25 metri, sfidando le leggi gravitazionali e assorbendo acqua e zucchero come un biscotto inzuppato nel latte. Io sarò vivo anche quando sarò morto. Li avete mai sentiti i violini Stradivari, l’avete mai ascoltata la loro legnosa e delicata armonia? Il bosco è un musicista: gli abeti rossi del Paneveggio quando marciscono diventano cassa di risonanza per corde mosse da abili artisti. Noi e la musica viviamo delle stesse semplici leggi, anche se noi sembriamo materia inerte. Voi suonate per imitare l’incanto del nostro silenzio fatto di mille rumori, come lo stormire delle foglie, il ticchettio degli insetti che camminano sulla corteccia, il cigolio dei rami piegati dal vento. Non è vero che un albero caduto fa più rumore di una foresta che cresce: voi infilate in me il succhiello per contarmi gli anni, create bisturi per medicare le ferite dei fulmini e le macchie buie lasciate dalle vostre auto, ma non sentite la mia voce. Se sono riuscito a vivere più di qualsiasi essere umano è perché ho stabilito una pace con le creature qui attorno: io e i viventi ci parliamo, prendiamo decisioni, sigliamo patti.

Quando arrivò Napoleone, Caprino Veronese si trasformò in un crocevia di mercati tra il lago e la montagna. Allora il mondo stava cambiando. L’Ottocento iniziava a sputare i fumi grigi del progresso e le macchine calcavano le scene. Eppure proprio allora fiorì la scienza della botanica. Il dottor Linneo trascorreva le giornate catalogando arbusti ai quali dava nomi lunghi e antichi. Qualche scienziato visionario comprese che gli alberi comunicano tra loro perché corpo e spirito sono un sistema unito in perenne trasformazione. La materia è animata da una reazione chimica misteriosa chiamata “emozione”, una corda invisibile capace di legarci al mondo proteggendoci dai pericoli e affogandoci nella meraviglia. La paura e la gioia sono chiavi che aprono le porte dell’universo e ci fanno sentire parte di un tutto confuso e luminoso. Amare un albero è come amare voi stessi.

Nell’Ottocento la mia chioma era più verde che mai. Dentro ci vivevano amici di tutti i colori: i neri merli e i pettirossi, i vermetti gialli e le pallide civette. Ogni tanto qualche damina si fermava ad ascoltare il cuculo e gli chiedeva “tra quanti anni mi sposo?”: lui emetteva dei cucu consecutivi ed era il pronostico dell’amore. Mi infastidiva un poco il picchio che martellava la corteccia per udire il vuoto di gallerie zeppe di larve saporite, ma si sa, la convivenza si nutre di compromessi.

La mia chioma è una delle più famose d’Italia. Mi chiamano “Platano dei cento bersaglieri” perché tra le mie fronde, nel 1937, si nascose un’intera compagnia di soldati mentre facevano le prove generali della guerra. I miei rami accoglienti e le mie foglie morbide spaventarono così tanto i tedeschi che durante la Seconda Guerra Mondiale mi raparono a zero per far impedirmi di ospitare partigiani in fuga.

Quelle ferite rimangono ancora. Durante la guerra divenni cupo e grigio, la mia pelle di serpente si mostrava nuda anche se non era inverno. Dai tagli mi uscivano lacrime di resina calda e profumata, pronta a guarirmi le piaghe infette da insetti avidi e consolarmi dalla malinconia. Ricostruirmi fu come nascere di nuovo, tornare ad essere un achenio con le piume, tra le capriole azzurre di una primavera in ritardo. Ogni tanto qualche vedova di guerra veniva a trovarmi e, con gli occhi annegati sotto la veletta nera, cercava il cuore inciso il giorno del fidanzamento. Poi piangeva, accarezzandolo con i guanti tremanti, in una disperazione di tenerezza. Allora scuotevo i rami più bassi facendo cantare i passeri e lasciandola piangere senza che nessuno la sentisse. Io non riesco a ricambiare gli abbracci e il vostro cuore che pulsa appoggiato alla mia corteccia mi fa sentire un gigante goffo.

Da allora tante cose sono cambiate. Ho vissuto 649 anni e mi accorgo che il tempo è un concetto strano. A volte vola veloce, altre si ferma e sospira. Guardo gli uomini e non so mai se siano loro a cambiare idea o se siano le idee a cambiarli. Ogni tanto qualcuno vuole abbattermi, ma io mi salvo sempre, senza dire una parola. E allora comprendo che non sempre avere un cervello aiuta a fare le cose migliori. L’uomo è la specie più giovane della Terra e la più intelligente, a suo dire, eppure a me non è chiaro cosa sia davvero l’intelligenza. Se è un mezzo per uscire dai problemi, allora l’uomo è un cucciolo acerbo del brodo primordiale da cui discendiamo, perché i guai se li crea. Non comprende che il progresso è una ragnatela di molecole solidali, una rete pacifica in cui si accontentano i bisogni di tutti, pochi e uguali. Sono più intelligente io, che campo da settecento anni e sono un capolavoro del creato.

L’uomo dovrebbe farsi attraversare dalla bellezza, lasciarsi cullare dalle libere connessioni della natura e sputare via il seme velenoso del controllo. Camminando sotto l’ombra di un platano, Socrate sosteneva di imparare più da un albero che dagli uomini di città, perché l’albero non vuole insegnarvi nulla.

Allora vieni qua e guardami con gli occhi chiusi. Annusa l’aria e, in silenzio, impara.

 

Bibliografia arborea per inesperti 

C’è una selva infinita di pubblicazioni scientifiche e divulgative sugli alberi. Io che non ho alcuna conoscenza di biologia e per imboccare nozioni ho bisogno di storie, consiglio questi capolavori:

Mario Rigoni Stern, Arboreto Salvatico, Einaudi Editore, Milano 2015.

Dino Buzzati, Il segreto del bosco vecchio, Mondadori, Milano 2016.

Daniele Zovi, Alberi sapienti antiche foreste, Utet, Torino 2018.

Stefano Mancuso e Alessandra Viola, Verde brillante. Sensibilità e intelligenza del mondo vegetale, Giunti Editore, Firenze 2015.

Stefano Mancuso e Fritjof Capra, Discorso sulle erbe. Dalla botanica di Leonardo alle reti vegetali, Aboca Edizioni 2019.

Tiziano Fratus, Ogni albero è un poeta. Storia di un uomo che cammina nel bosco, Mondadori, Milano 2015.

Tiziano Fratus, L’Italia è un bosco. Storie di grandi alberi con radici e qualche fronda, Laterza, Bari 2016.

*La frase di Socrate parafrasata nella chiosa è liberamente tratta dal “Fedro” di Platone, dialogo che avviene davvero sotto un platano. 

 

 

IO E VERMUT: innamorarsi di un gatto.

Liberata da ogni senso morale e implicazione sentimentale, la natura bada solo a sopravvivere. Le scelte di vita, morte e trasformazione sono assoggettate all’unico razionale imperativo: non finire mai. Accade così che una gatta, incapace di sfamare tutti i cuccioli, ne abbandoni alcuni per preservare il destino dei più forti e garantire la sopravvivenza della specie. L’essere umano non si rassegna alla cruda logica della natura matrigna e – quando non la sfrutta e non la distrugge – tenta di invertire il corso delle sue faccende.

Accade così che il micino lasciato orfano venga raccolto e cresciuto da una nuova mamma umana. Questo è stato il destino di Vermut, nome dato in onore dell’antica e aristocratica bevanda.

Quando è arrivato a casa era grande come una mano piccola. Gli occhi ancora semichiusi sembravano immersi in un calice di petrolio e la pelliccia – arruffata e impiastricciata di latte – pareva una coperta buttata su per ripararsi dagli spifferi. La cosa più spaventosa era il pianto: dio solo sa come un minuscolo polmone possa scaturire una tale fragorosa potenza. Vermut piangeva quasi sempre, soprattutto di notte. Chiedere il cibo rappresentava un’impresa scatenata, nonché l’unica cosa che valesse la pena fare. Si nutriva con un biberon alto quanto lui. Lo beveva voracemente, concedendosi qualche brevissima pausa per respirare, mentre la pancia rosa e calda si gonfiava all’inverosimile e le zampe – fragili come un’ala di passero – si aggrappavano mostrando artigli minacciosi.

Nell’atto del nutrirsi c’era tutta la forza di cui un essere vivente è capace. Lo disse Sant’Agostino, parlando dei bambini: “la loro debolezza è nel corpo infantile, non nell’anima” perché se potessero ti ammazzerebbero quando neghi loro qualcosa. Se Vermut fosse stato un gorilla, al momento della pappa ci avrebbe aggredito come una bestia invincibile; se fosse stato un vento o un fiume avrebbe spazzato via la casa. All’ultimo sorso di ciuccia cadeva infine in un sonno senza sogni. Beato, ronfante, con gli occhi che si capovolgevano come se il petrolio spandesse dal calice.

  

 

Ora mangia crocchette e pezzettini di carne. C’è stata la parentesi degli omogeneizzati costosi che, non senza divertimento, sceglievamo secondo i gusti e abbinamenti più disparati. La sua ciotola rossa è in soggiorno. Appena agito il sacchetto delle crocchette, Vermut abbandona ogni attività e arriva guardandomi con gli occhi che ora sono del colore del cielo quando sta per piovere. La codina sollevata sembra seguire il movimento del musetto che pesca nel cibo fin che tutto non è ripulito.

 

Una delle emozioni più intense l’ha data la prima volta che è riuscito a saltare i quattro gradini tra la cucina e il soggiorno senza fermarsi e senza piantarci il naso in goffe capriole. Ci sente un po’ scemi a parlar così di un gatto, eppure non se ne può fare a meno. Non mi stupisce che tali animali fossero venerati nell’antico Egitto, ineguagliabili protagonisti di leggende zeppe di fascino. Sono creature misteriose e la regale indipendenza che li caratterizza ci rende schiavi del loro centellinato affetto. Il gatto non è del padrone, ma è il padrone ad essere proprietà del gatto.

Dicevo che la prima volta in cui Vermut ha saltato i gradini senza franare è stata un’emozione incredibile. Seduto sulle zampette posteriori, con le orecchie tese come due missili in procinto di scaraventarsi sulla luna, ha calcolato con estrema attenzione la distanza tra lui, i gradini e la gloria. Poi ha valutato e scelto il ritmo del movimento. Infine si è lanciato in questa impresa eccezionale, spingendo sui polpastrelli senza dar l’impressione di far fatica, producendo un flebile “miao” di incitamento simile (solo negli intenti) al grido valchirio delle lanciatrici di giavellotto. Uno, due, tre, quattro ed è arrivato perfettamente posato e fiero sulle zampe, tra gli applausi di due donne ormai perdutamente innamorate e quindi instupidite.

 

Vermut gioca con qualsiasi cosa, prediligendo oggetti rumorosi ma non troppo: lo irrita l’aspirapolvere e lo spaventa l’accensione di un motore. Per il resto, tutto è pura meraviglia. Caccia spesso fiere immaginarie camminando in laterale e gonfiandosi come sospinto da una bora improvvisa. Si nasconde tra il divano e i giornali per simulare agguati pericolosissimi, planando con le zampe aperte e il petto rosa e caldo in fuori. Noi diciamo che “fa il Vietnam”. Ora è nella fase in cui si arrampica dappertutto: sul divano (proprio perché gli è stato vietato), sui pantaloni mentre si mangia, sulla libreria. Gli abbiamo comprato una sorta di castello peloso, un tiragraffi a più piani, munito di uccelli rosa e bianchi con un ciuffo vaporoso e penzolante. Nel castello ci sono scale, paletti, un’amaca morbida e una stanzetta buia con una porta piccolissima: si tratta di un trabiccolo sempre in mezzo alle scatole che la fantasia trasforma in un mondo pieno di insidie, battaglie e meraviglie.

     

 

Se un micio sia dotato di fantasia è una domanda che mi faccio spesso. Non posso sapere cosa vede Vermut, cosa crede, quale sia il suo approccio alla vita e altre mille domande inutili scovate dall’uomo in chissà quale momento dell’universo, rovinando la magia selvaggia di non aver altri pensieri oltre al cibo da cacciare e la specie da riprodurre.

Le sue giornate sono scandite dal sonno, dalla fame e dalle incredibili scoperte contate in pochi metri, tra un rotolo di carta igienica, il caricatore dello smartphone e il telecomando con cui un giorno si è acceso la televisione da solo. Quando poi rientri a casa e ti si abbandona affusolato intorno al collo, magari dopo una giornata lunga e perdente, sembra pesare di più. Il suo corpicino tigrato e svelto pare esistere per darti una lezione eterna e banale: se siamo ancora qui, io e te, vuol dire che in fondo è andato tutto bene.

 

 

QUESTIONE DI SGUARDI: viaggio nella Mostra delle Case di Tolleranza.

⇒Le foto della Mostra: vai alla Gallery!

Davide Scarpa e il tesoro ritrovato 

“Quante cose, lime, soglie, atlanti, bicchieri, chiodi, ci servono come taciti schiavi, cieche e stranamente silenziose” – scriveva Borges – “dureranno più in là del nostro oblio”. “No sabrán nunca quei nos hemos ido”, non sapranno mai che ce ne siamo andati.

Il nostro sguardo fa rivivere le cose che ci sopravvivono. Siamo noi a dare voce ad oggetti muti, a farci narrare storie perdute e passioni segrete. Salvare le cose dall’oblio significa, in un certo senso, conquistare un palmo di eternità.

Nel 2010, Davide Scarpa viene chiamato dai colleghi, impegnati nella demolizione di un edificio di Carsara, in provincia di Pordenone. Lui è un appassionato di storia e loro hanno trovato un cumulo di stracci che paiono avere una certa età. Davide Scarpa lo acquista per mille euro dal proprietario e poi dedica anni al restauro. Gli oggetti ritrovati sono ciò che rimane di un bordello dell’era fascista: probabilmente qualcuno li ha nascosti per salvarli dall’oblio.

Nasce così il tesoro esposto nel “Museo delle Case di Tolleranza”. “Mia moglie mi ha fatto dormire in divano per tre mesi” – racconta Davide – “perché assorbivo l’odore stantio di quelle cose destinate al macero”.

La Mostra delle Case di Tolleranza si può visitare fino al 15 settembre presso Villavarda a Brugnera, in provincia di Pordenone (per info Mostra Museo delle Case di Tolleranza). In tre stanze delle Villa è stato ricreato un bordello immaginario. Dall’ingresso, col tariffario esposto e l’armadietto dei disinfettanti, si giunge al salotto dove – tra specchi, vestiti di perle e tazze da geisha – ci si avventura in una camera di luci soffuse, bidet, spazzole e piattini per le marchette.

Attualmente il Museo è senza fissa dimora: rimane itinerante non per scelta del curatore, ma perché fa troppo scandalo e nessun ente pare disposto ad ospitarlo. “Tutte le volte che cerco di organizzare una mostra” – dice Davide –  “quindici giorni prima dell’inaugurazione, mi chiamano dicendo che il vescovo o il monsignore di turno è intervenuto e ha fatto saltare tutto, perché i bambini potrebbero scandalizzarsi”. 

Nei bordelli di Stato, “la norma di comportamento è il pudore”.

“La norma di comportamento di chiunque entri in questo locale è il pudore!” Avviso all’ingresso del postribolo.

Eppure fino al 1958 le Case di Tolleranza erano proprietà dello Stato. Nel 1861, quando i militari morivano più d’amore che di guerra, Cavour decise di copiare dai francesi un “Regolamento del servizio di sorveglianza sulla prostituzione”, che decretava l’iter per l’apertura di postriboli di Stato, fissando le tariffe e le imposte. Si calcola che nel 1958 le 560 Case autorizzate fruttassero al fisco 100 milioni di lire l’anno (1 miliardo e cento milioni di euro). Vennero creati appositi Uffici Sanitari per sorvegliare la salute delle prostitute e definire le prassi igieniche da eseguire scrupolosamente.

Il Ventennio fu l’epoca d’oro dei bordelli. La retorica del macho italico e della matrona integerrima fece fiorire i luoghi di perdizione. Durante le notti fasciste, le donne che Lombroso definì “affette da pazzia morale” intrattenevano gerarchi, operai, padri di famiglia e ragazzi che, in un rito di iniziazione, conoscevano le cosce di Wanda, Adua, Margot e mille altri nomi esotici che celavano l’origine disperata di schiave imprigionate tra specchi e velluti.

 

Il tariffario vidimato dalla pubblica autorità.

Nel j’accuse “Addio, Wanda!”, Montanelli si schierò contro la chiusura delle Case di Tolleranza definendo la Legge Merlin un “colpo di piccone” che faceva crollare i tre pilastri dell’ordine sociale: la fede Cattolica, la Patria e la Famiglia che “nei cosiddetti postriboli trovavano la più sicura garanzia”. Secondo il giornalista, il bordello era “l’unica istituzione italiana dove la competenza è premiata e il merito riconosciuto”.

Frequentare le prostitute non sembrava una pratica sconvolgente e non veniva del tutto nascosta a madri e mogli. Anzi: una puttana avrebbe tenuto gli uomini lontani da relazioni davvero peccaminose, quelle in cui per amore si smarriva la bussola e l’innocenza. Le case erano dette “chiuse” per l’obbligo di tenere le persiane abbassate. Le ragazze non potevano esporsi e farsi notare: nel caso, sarebbero state accusate di adescamento. Le tenutarie più scaltre, all’arrivo della nuova quindicina (le prostitute ogni due settimane si turnavano in bordelli lontani tra loro per scongiurare relazioni con i clienti), facevano un tour della città in carrozza per esibire la propria merce.

Lo sguardo sulla Storia è spesso quello degli uomini: secondo Davide Scarpa, il motivo per cui la sua Mostra rimane nomade è perché i maschi sono restii a mostrare le loro debolezze e i loro vizi. “Senza di voi, non riusciremo nemmeno a farci il bidet”.

Varechina, marchette e messa del Venerdì: vita di una meretrice.

Per diventare prostituta si depositava una domanda in carta bollata presso la Prefettura. I requisiti per ottenere l’autorizzazione all’esercizio erano godere di sana e robusta costituzione, aver frequentato almeno le prime due classi delle elementari (per essere in grado di conversare piacevolmente con i clienti) e dimostrarsi morigerate: oltre all’esame dell’Ufficiale Sanitario, infatti, ci si sottoponeva al giudizio del Monsignore. Il ministro di Dio aveva il compito di decretare, con assoluta certezza, che la futura prostituta avrebbe praticato per necessità e non per piacere.

Una volta accettata nella Casa di Tolleranza, alla prostituta spettava un lungo periodo di tirocinio in cui affinava le arti del mestiere. In quel frangente si sarebbe occupata dei clienti più perversi e difficili, come i militari mutilati, resi rabbiosi dalla paura e dal dolore.

Cartoline scandalose e il piatto per le “marchette”.

Una volta ottenuta “la patente” (un libretto di quattro facciate in cui  annotare gli esiti delle visite mediche settimanali), la prostituta perdeva i diritti civili e veniva iscritta in un apposito registro. Nella patente erano definiti anche gli obblighi comportamentali: non tenere discorsi osceni, non essere in stato di ubriachezza, non restare fuori casa “senza giusta causa” oltre le ore 20.00.

 

“Non è vero che i clienti potevano scegliere liberamente le prostitute” precisa Davide Scarpa. Era la tenutaria, chiusa nel suo vestito scuro, riconoscibile dal pendaglio a forma di quadrifoglio, a decidere come combinare il mercato. Si regolava soprattutto in base alle corporature della coppia improvvisata e anche al portafoglio degli avventori, che avevano diritto ad una migliore qualità se più ricchi e spendaccioni. I rapporti venivano consumati tra la fretta e l’imbarazzo: in un’epoca in cui lo Stato finanziava un affare su cui vigeva però il massimo riserbo, la passione fisica non godeva di gran poesia. Tutti i clienti (anche chi andava per “far flanella”, cioè bighellonare senza consumare) dovevano firmare appositi registri di ingresso e, nonostante l’obbligo imposto dalla legge, molti elenchi non furono mai distrutti, così come non vennero distrutte le “patenti” delle prostitute, impedendo a molte di riscattarsi socialmente.

Chi decideva di abbandonare il mestiere aveva diritto ad una pensione ma doveva dimostrare di essere “ravveduta” scontando qualche anno nelle “Case delle Maddalene”, severi istituti ecclesiastici in cui le suore costringevano le donne ad una nuova, mistica, schiavitù.

Ogni venerdì nel bordello si celebrava la messa. Tra tutti i clienti, gli unici esentati dalla firma di presenza erano i prelati: per loro vi era un accesso segreto. Al loro passaggio, il corridoio doveva essere deserto e le stanze mute. Del resto, uno scrittore definì il bordello all’alba come “la cosa più vicina al Paradiso”.

 

“Un uomo si è perso qualcosa se non si è mai svegliato in un letto sconosciuto di fronte a un volto che non vedrà mai più, e se non ha mai lasciato un bordello all’alba con la tentazione di buttarsi nel fiume per il puro disgusto che prova per la vita”. Gustave Flaubert.

 

Il bordello, fumoso e illuminato di rosso, era immerso in un miscuglio indefinibile di odori. Si narra che il colore rosso identifichi i lupanari sin dai tempi della Bibbia, quando la prostituta Raab aiutò le spie di Giosuè segnalando la sua casa con una corda scarlatta. Sin dall’ingresso, colpiva il profumo di talco, di cipria, di lisoformio balsamico confuso col sudore. I commercianti di prodotti per la sanificazione sperimentavano nei bordelli articoli che sarebbero stati utilizzati poi nei nosocomi. Durante l’era napoleonica, le prostitute francesi portarono in Italia il sapone di marsiglia; un’essenza di muschio bianco misto a gelsomino (che sarebbe stata la base del futuro Chanel n.5) e la varechina, un composto ottenuto dalle ceneri di varècchi, alghe marine che inscurivano le spiagge della Normandia.

Le pratiche di igiene avvenivano secondo quanto disposto dalla legge. Se il cliente era visibilmente poco pulito, la tenutaria gli spruzzava prontamente la polvere antiparassitaria MOM (ancora in uso). In camera la prostituta lo ispezionava, lo lavava e insufflava dentro di sè una soluzione di solfato di zinco prima e permanganato di potassio poi. Erano veleni che scongiuravano le malattie veneree ma anche la fertilità, bruciandoti la speranza di mettere al mondo una vita migliore.

Il cliente pagava alla tenutaria “le marchette”, che in origine indicavano un valore bollato e poi diedero il nome ai gettoni che monetizzavano tipo e tempi della prestazione. C’era “la sveltina” oppure, per gli uomini che non avevano problemi a spendere e ritardare il rientro a casa, la “doppia”. Oggi il termine “marchetta” si usa per indicare un’azione che si fa malvolentieri col puro intento di ottenere del denaro. Del ricavato delle prestazione alle lavoratrici non rimaneva quasi nulla. Nonostante la legge fosse nata per impedirlo, lo sfruttamento c’era eccome, subdolo e criminale quanto quello di oggi.

 

“Signora Deputatessa, mi salvi!”: le Case Chiuse tra palco e realtà.

“Nudo blu”, Pablo Picasso, 1902.

La verità, in fondo, è una questione di sguardi. Nel suo ultimo romanzo, Gabriel García Márquez, racconta la folle notte di uno scrittore novantenne con una prostituta quattordicenne. “Memoria delle mie puttane tristi” è un’opera indefinibile nella sua pericolosa seduzione. Il vecchio protagonista giunge nell’abituale bordello in tarda serata e Rosa Carbacas – tenutaria dagli occhi crudeli e il dente d’oro – lo avverte che la ragazza richiesta è stata sedata con un decotto di valeriana perché sorpresa da un terrore inconsolabile. Il vecchio scrittore la raggiunge in camera e, sorpreso dalla sua bellezza e dalla sua miseria, rimane a guardarla dormire e respirare, rigirarsi nel letto con le ciglia finte serrate e altere, rabbrividire dentro mentre la sfiora con un dito, “come l’accordo di un’arpa”.

“Fu una cosa nuova per me. Ignoravo le scaltrezze della seduzione, e avevo sempre scelto a casaccio le fidanzate di una notte più per il prezzo che per le grazie, e facevamo un amore senza amore, semi vestiti il più delle volte e sempre al buio per immaginarci migliori. Quella notte scoprii il piacere inverosimile di contemplare il corpo di una donna addormentata senza le urgenze del desiderio e gli intralci del pudore”.

L’arte è una ruffiana: non si sa mai se venga buona per rendere docili i disumani istinti o se davvero sia l’unica forma d’amore capace di scovare frammenti di infinita bellezza dove le cose sembrano cupe e prive di anima. Scrittori, musicisti e pittori hanno raccontato i bordelli con un senso di poetico rispetto, una sorta di riverenza verso qualcosa che non era del tutto sbagliato. Con il glaciale aplomb imposto dal ruolo, parlarono a difesa delle Case Chiuse anche i parlamentari che si opposero alla senatrice Lina Merlin, nei dieci anni del travagliato processo che portò alla messa al bando dei bordelli, dalla proposta del 1948 all’approvazione del 1958. “Per evitare il fenomeno della prostituzione”, argomentò il democristiano Pierraccini, “dovremmo essere costruiti come gli animali inferiori, per esempio, il corallo, che è asessuale e non ha il sistema nervoso”. Il mestiere più antico del mondo non sarebbe scomparso con un divieto, pensava Benedetto Croce, perché “eliminando le case chiuse non si distruggerebbe il male che rappresentano, ma si distruggerebbe il bene con il quale è contenuto, accerchiato e attenuato quel male”.

Le prostitute erano robusti argini contro le pulsioni che si dovevano sfogare sotto un certo ordine e controllo per non esplodere in deplorevoli danni sociali. Ma è soprattutto il loro sguardo a chiedere voce, sono le loro tragiche storie che esigono fiato, fosse necessario decifrarle tra gli oggetti di una mostra nomade.

Il libro “Cara senatrice Merlin. Lettere dalle case chiuse” raccoglie testimonianze di sofferenza di chi cercava un’alternativa ringraziando Lina Merlin e di chi malediva la senatrice perché una vita diversa non l’avrebbe mai avuta, anzi, forse non ne avrebbe più avuta una.

 

“Signora Deputatessa Merlin
Io ò saputo dalle mie compagne della legge che fà per noi prostitute. Io
non me ne intendo; sono una povera donna che faceva la serva e sono delle
campagne di C. e vorrei tornarci a fare la serva o la contadina non questo
mestiere che mi fa schifo.”

 

“Era una vita da schiave, racconta Gilda (“Eravamo delle schiave fra specchi di velluto”. La testimonianza di Gilda,) “Giornate cadenzate dal ritmo alienante delle “semplici”, delle “doppie”. Una media di trenta, quaranta finti orgasmi. Ti si rompevano le reni, anche se, mentre quelli si sfogavano, tu mangiavi noccioline. E per che cosa?”.

Attraversando la mostra è impossibile non imbattersi in un vociare discreto di giudizi dei visitatori incuriositi. “Una volta era meglio, erano più sicure”, dicono alcuni. “La scelta del mestiere deve essere difesa dalla legge, fa parte delle libertà”, sostengono altri. Eppure lo sguardo posato su quelle cose segrete ci ricorda che non è indispensabile avere un’opinione su tutto e non è necessario avere un’opinione giusta su tutto. La realtà ruscella sempre tra mille contraddizioni e a volte per comprendere basta osservare e attendere, silenziosi, l’arrivo chiassoso e inquieto della Verità, fatto salvo che esista per davvero.

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Federica Marangon

IL CANTO DEL VECCHIO CIGNO (Racconto noir)

Si era seduta sul divanetto dell’ingresso e sfogliava distrattamente un numero di Famiglia Cristiana. Le aveva telefonato l’infermiera Micaela dicendole di correre subito in casa di riposo. Ansimava come avesse appena fatto le scale: “tuo marito è grave, Elsa, vieni appena puoi”. Indossò frettolosamente una gonna e una camicia non ancora stirata e si assicurò che nella macchina ci fosse abbastanza benzina per arrivare all’istituto. Ora invece la facevano attendere. L’assistente sociale l’aveva bloccata all’ingresso: “aspetti un attimo, signora Elsa, chiamo subito il medico”. Quel mattino aveva fatto un passaggio veloce in casa di riposo verso l’ora di colazione. Doveva ritirare un piumone in lavanderia, ma trovò il tempo per andare a trovare il marito. Il mercoledì il programma settimanale prevedeva la ginnastica di gruppo: i vecchi si lanciavano la palla al ritmo di musica, chiamando il loro nome. Si trattava di uno spettacolo grottesco e piacevole allo stesso tempo: le loro risate bambinesche imbarazzavano e rallegravano i cuori. Non è vero che invecchiando si diventa bambini, semplicemente si annullano le facoltà della mente e del pudore e inizi a vivere come ti pare. Sarebbe più bello fare ciò che ti pare a trent’anni o a quaranta, quando l’energia ti è ancora alleata, ma non lo si fa. Si aspetta l’ultima chance, il canto del cigno, per esprimere la propria natura.

Era l’ora del cambio turno. Le ragazze del mattino uscivano dagli spogliatoi profumate, con i capelli sciolti. In divisa sembravano tutte più vecchie. Si sentivano le loro risate, il tintinnare dei soldi alla macchinetta del caffè, il bip del marca presenze che, come i tre fischi dell’arbitro, decretava la fine di una giornata di lavoro. Quando la videro con il giornale in mano, lei sorrise come era solita fare. Queste donne accudivano un centinaio di vecchi. Li pulivano, li imboccavano, avevano una parola gentile per ognuno di loro. E per farlo a volte erano costrette a lasciare i figli alle baby sitter, a mangiare una scatoletta di tonno perché non c’era tempo per preparare nulla, a lasciare la casa sottosopra mentre gli armadi dei vecchi dovevano essere sempre perfetti: se un calzino finiva distrattamente nel cassetto del compagno di stanza, erano guai. Eppure appena la videro calò il silenzio. La salutarono a malapena e fuggirono via svelte, guardando il pavimento come camminassero nel buio. Ma perché? Suo marito era ricoverato lì da un anno; lei aveva condiviso con loro ogni dubbio, ogni pianto. Portava panettoni e spumante a Natale, si ricordava dei compleanni. Quando andava al mercato arrivava sempre con le brioche e un mazzo di fiori da mettere in guardiola. Sarebbero morti nel giro di pochi giorni, a causa delle temperature tropicali del reparto, ma non era importante. Ora che si trovava ad affrontare un momento così tragico (non glielo avevano detto, ma sapeva che Romeo era spirato) non la badavano nemmeno. Aveva fatto qualcosa di sbagliato?

Un anno prima l’ictus aveva reso Romeo ingestibile. Mangiava pochissimo, si muoveva a malapena, le uniche parole che gli uscivano erano insulti e bestemmie, se non grida di dolore inconsolabili. Negli ultimi tempi chiamava sua madre con una forza che spezzava il cuore. Stava morendo da vivo, prigioniero di un corpo ormai estraneo. L’uomo che aveva accarezzato, instancabile volontario in parrocchia, padre devoto, era un cumulo di ossa stanche. Il viso di cui conosceva ogni singola espressione sembrava un letto sfatto. La pelle prendeva sempre più il colore delle giornate grigie, quando butta pioggia fino a sera. Ogni volta che lo guardava negli occhi vuoti come un tunnel sotterraneo, realizzava che siamo preda di una fisiologia matrigna, che appena può ci toglie quanto abbiamo conquistato con una vita sana e il progresso della medicina.

Nonostante non avesse mai preso in considerazione un ricovero in una struttura sanitaria, ad un certo punto non ebbe molta scelta. Si stava consumando pure lei. Di notte puntava la sveglia per cambiarlo e per metterlo sul fianco, poi supino, poi sul fianco di nuovo. Era una prassi necessaria per scongiurare l’insorgere di piaghe da decubito: il movimento stimolava la circolazione, cambiando il punto di pressione. Aveva la schiena a pezzi e il diabete di cui soffriva da anni di certo non la aiutava. Il pensiero di quell’operazione, unito alle urla lancinanti che partivano da quel corpo ridotto ad una voce inquieta, non la facevano dormire nemmeno quando poteva. I figli non avevano dubbi: la casa di riposo rimaneva l’unica soluzione possibile. Fu Cristina a convincerla. Una sera se la trovò a casa insieme a Stefano. Spense la tv, accompagnò suo padre in camera da letto, mentre protestava chiamandola “stronza”, e disse che se sarebbe andata dall’assistente sociale a chiedere di “mettere dentro suo padre”. “Metterlo dentro” era un’espressione violentissima che però ben rendeva l’idea dell’azione. Contro il suo parere – anzi, senza chiederglielo nemmeno – avrebbero prelevato il vecchio malato e una valigia per portarlo in un posto dal quale sarebbe uscito in una bara. Una sorta di Purgatorio in terra, dove i tuoi peccati diventano righe scritte in una cartella socio-sanitaria, alla mercé di donne sconosciute che conoscono più il tuo culo che la tua anima. Era un pensiero spaventoso. Ed Elsa lo formulava ora, mentre attendeva seduta sul divanetto, con il profumatore automatico che ad intervallo spruzzava una fragranza talcata. Da pochi minuti era entrato il “nuovo ingresso”. Magari, pensò, avevano già occupato il letto di suo marito. Il “nuovo ingresso” era un vecchietto ancora abbastanza lucido che camminava con il girello. La nipote aveva chiamato la ragazza alla reception e le aveva lasciato un sacchetto della Coop con dentro qualche maglietta, qualche pantalone, il suo rasoio elettrico, la foto della moglie e due o tre paia di mutande. “Domani portiamo il resto, se ci dite cosa serve”, disse la ragazza, “comunque qua c’è tutto il necessario”. La sua vita era in un sacchetto, le cose davvero indispensabili occupavano pochi centimetri quadrati. I vecchi della casa di riposo erano persone che avevano sgobbato per anni per costruire una casa per loro e per i figli. Avevano combattuto per riuscire a godere di una buona reputazione, ed essa comprendeva anche “le cose”, “la roba”, quelle ricchezze misere che ora non servivano più. Qualcuno avrebbe deciso le loro sorti, non erano padroni nemmeno del loro tempo. Sarebbero entrati in un posto in cui altri decidevano cosa avrebbero mangiato, quando avrebbero dormito ed evacuato. Se ci si metteva a pensare a quanto poco era servita quella lotta forsennata per aver un posto al sole o almeno un minimo di rispettabilità, si veniva colti da una sorta di vertigine. Era meglio accantonare riflessioni di questo tipo, stiparle nelle soffitte e lasciarle lì come gli alberelli di Natale ad agosto, con i rami legati da un nastrino.

Anche lei aveva fatto così il giorno in cui preparò, per l’ultima volta, la valigia di Romeo. Andò a comprare magliette e mutande nuove al mercato, le mise nel borsone ancora impacchettate, in modo che le ragazze sapessero quanto ci teneva a lui, che non l’avrebbe mai mandato via con della biancheria sgualcita e ingiallita. In quei giorni era presa da mille pratiche preoccupazioni: la documentazione sanitaria da fotocopiare e raccogliere, riponendola in buste di plastica; poi i vestiti e qualche ricordo da lasciare sul comodino (l’assistente sociale le aveva detto che si poteva portare). La parte più difficile arrivò quando aprì lo stipetto degli omogeneizzati. Suo marito da un anno si nutriva di pappette e acqua addensata, un budino senza odore né sapore, che lui sputava sul bavaglio. L’aveva nutrito come un bambino, attenta alla temperatura, al grado di sale. Frullava gli arrosti, le verdure, la pastasciutta. Comprava qualche omogeneizzato quando il peso calava, per esser certa di avergli dato i principi nutritivi necessari. Versava tutto su un piatto termico e iniziava l’odissea dell’imbocco. Aveva appreso tutte le tecniche per riuscire a farlo mangiare: mantenere un ambiente tranquillo e privo di stimoli (niente tv, telefoni in silenzioso), sedersi di fianco a lui, invitarlo a mangiare da solo quando le sue condizioni lo permettevano, mettere sul cucchiaio una puntina di zucchero se rifiutava il cibo, o intervallare i bocconi con un pezzetto di banana schiacciata. L’uomo che per anni si era vantato di mangiare le costate più alte del pianeta, ora piangeva quando gli infilavi in bocca la poltiglia incolore che, per quanto la insaporivi, non sapeva di nulla. Era come dar da mangiare ad un bambino sdentato di ottant’anni. Il giorno in cui lo ricoverò e aprì lo stipetto degli omogeneizzati che a casa non sarebbero più serviti, si mise a sedere per terra e pianse. Le si smagliarono le calze e il trucco le macchiò il colletto. La vita è troppo dura anche per chi sa di non aver colpe.

In casa di riposo Romeo mangiava in maniera abbastanza regolare. Il calo di peso era fisiologico ed entrava nei range previsti dalla patologia di cui soffriva. Spesso andava lei a darle da mangiare. Le ragazze tenevano il cibo in caldo se ritardava. Arrivava nella sala da pranzo e si sedeva accanto a lui. L’avevano lasciato su un tavolo da solo perché spesso bestemmiava e sputava spaventando i vicini. Una volta una delle operatrici le aveva detto che la sua presenza lo rendeva ancora più nervoso. Gliel’aveva detto cordialmente, quasi con un sorriso sulle labbra. Era la moglie, lei. Cosa voleva dire che lo rendeva più nervoso? Non c’era altro modo di riferirglielo, se non sorridendo con inopportuna ironia? Elsa le rispose che forse il nervosismo era dato dal livello di follia di quella sala da pranzo. In quaranta metri quadri mangiavano trenta vecchi, e dovevano finire il pasto in mezz’ora. Il tutto avveniva in una confusione insopportabile. C’erano anziani che si alzavano continuamente dalla sedia, altri che tentavano di saltellare sulla carrozzina chiedendo di essere accompagnati al bagno (compito impossibile da svolgere in quel momento), vecchi a cui era destinato il cibo frullato invidiosi della coscia di pollo del vicino. Romeo era stata confinato anche per questo: gradiva la compagnia di persone ancora lucide e, pur non partecipando attivamente alle conservazioni, sembrava seguire i loro discorsi. Gli occhi di tunnel vuoto acquisivano vita quando stava in mezzo a chi poteva ancora condurre il proprio cervello in discussioni sensate. Ma erano persone in grado di fagocitare lasagne e patate arrosto, e lui non lo sopportava. Avventava la mano sana sul loro piatto, rubando tutto. Se metteva in bocca qualcosa di solido rischiava la vita. “Poi finiamo noi nei guai” le aveva detto il medico per convincerla a lasciarlo su un tavolo solitario come un cane rabbioso. Risultava difficile accettare il ricatto morale di una presunta galera. Ogni volta che il medico proponeva una soluzione drastica – fosse per le piccole incombenze come il posto a tavola o per la prescrizione di una terapia, per una cintura contenitiva – il discorso era sempre lo stesso: “ci pesa farlo ma non possiamo rischiare di finire in galera”. Aveva affidato una delle persone più care al mondo alle loro cure. Chiedeva sempre se il vestito portato era adeguato, se il biscotto non era pericoloso, se l’aria frizzante del mattino gli poteva arrecare problemi alla gola, eternamente gorgogliante dopo l’ictus. Eppure sembrava che il ragionamento dei sanitari fosse sempre volto a pararsi il culo il più possibile. Anzi, non è che sembrava, te lo dicevano in faccia. Come avrebbe potuto denunciarli pure se le prescrizioni, per motivi casuali, avessero creato dei problemi alla salute di Romeo? Il destino di quell’uomo era già scritto, pure se gli avessero accorciato la vita rendendola però più dignitosa e piacevole, andava bene lo stesso. Ma non c’era verso, e lei in fondo lo capiva. Non sai mai chi hai davanti. Una persona apparentemente accomodante domani può diventare una iena, se gli tocchi l’orgoglio e i soldi in banca. Glielo aveva detto Micaela, mentre trascinava il carrello delle terapie. Guardandola con un occhio nascosto dal palo delle flebo le sussurrò: “non sai Elsa cosa fanno i parenti per i soldi. Minacciano di denunciarci in continuazione, ogni tanto qualcuno vince la causa. La morte pare un evento improvviso e catastrofico pure se hai novantanni e un piede nella fossa”. Poi si era scusata per la brutalità dell’espressione, anche se era impossibile darle torto.

Forse era per questo che le ragazze non l’avevano nemmeno salutata quel giorno. Romeo se n’era andato in circostanze non chiare, e ora sistemavano la cartella clinica e si accordavano sulla versione da dare. L’aveva capito tempo addietro, una volta in cui lo mandarono al pronto soccorso in forte stato di disidratazione: quando succedeva qualcosa di colposo, raccontavano tutti la stessa cosa, con identiche parole, come fosse un copione di teatro. Poi la verità la veniva a sapere comunque da qualche anziana arzilla, solitamente sorda ma perfettamente udente quando giravano voci interessanti e tra il personale aleggiava il panico. Quando Romeo tornò dall’ospedale, infatti, le si avvicinò Adelina, chiusa nella sua mantellina rosa nonostante fosse il dieci agosto. La portò nella sua camera con la scusa di farle vedere un’orchidea azzurra. Camminava a spingendo la sua carrozzina, percorrendo il corridoio con passi ondeggianti come quelli dei marinai sulle navi. “Maledetta anca arrugginita”, biascicava in una smorfia di dolore. Entrando nella camera chiuse la porta e raccontò quanto udito in consegna il giorno del ricovero. “La consegna” era il momento in cui le ragazze del turno del mattino passavano le informazioni a quelle del pomeriggio. Avveniva alle ore 14.00 presso la guardiola. Anche se era presente qualche vecchio, nessuno ci faceva caso. Adelina non mancava mai, diceva di non aver voglia di riposare dopo pranzo, tanto alle 19.30 mettevano tutti a letto ed era dura star fermi e zitti fino al mattino dopo. Quel giorno stava facendo a maglia sulla poltroncina di fianco alla scrivania e sentì Micaela dire alla collega che Romeo era stato ricoverato in stato di disidratazione perché le ragazze non gli avevano dato da bere. Da lì si scatenò l’inferno: una ragazza in quel momento assente venne accusata di barare la registrazione delle idratazioni, confermando di avergli dato da bere l’acqua addensata quando in realtà la buttava giù per il cesso. Micaela gridava che queste cose si dovevano riportare subito in direzione, che era tutta una mafia, tutte si coprivano per pararsi il culo a vicenda. Le urla arrivarono in tutte le camere, qualche anziana uscì a piedi scalzi e i capelli scomposti chiedendo cosa stesse succedendo. Dalle preoccupazioni sanitarie si passò ben presto alle accuse personali: la coalizione di Micaela sosteneva l’esistenza di un gruppetto di capette che facevano di tutto per lavorare meno, lasciando i vecchi poco curati e maleodoranti. Avevano fretta di finire presto per poi starsene a chiacchierare davanti alle macchinette o a fumare in giardino. Il resto delle dipendenti doveva sobbarcarsi anche le loro mansioni e ormai erano stufe di questa storia. E poi le capette chiedevano dei cambi turni per andare insieme a ballare o fare aperitivo, postando foto su Facebook per far rabbia alle altre. Micaela ne avrebbe parlato con il direttore e se lui non faceva nulla, avrebbe chiamato i sindacati. Adelina aveva assistito a tutta la scena, con la testa china sui punti a goccia della sua nuova maglia, facendo finta di non capire nulla.

Del resto, pensava Elsa, come potevano quattro persone star dietro ai vecchi quando lei aveva faticato a tenerne in vita uno? Le ragazze facevano un lavoro difficilissimo, che esigeva concentrazione, conoscenze tecniche e un buon intuito clinico. Eppure erano pagate male e considerate peggio. I familiari le chiamavano “inservienti”, in tono sprezzante. Le trattavano bene per scongiurare lo spauracchio di una tacita vendetta sui loro cari nel momento in cui non si fossero sentite abbastanza stimate. Era un attimo provocarle inducendole a venir meno al loro dovere, condannando definitivamente la vita dei vecchi, già al gradino più basso nella scala della dignità. In realtà era un pensiero che non valeva per tutti: Elsa aveva sempre avvertito rispetto nei suoi confronti e non aveva dubbi sulla qualità delle cure riservate al marito, non avrebbe mai ipotizzato reazioni simili. Provava una certa vergogna quando gli anziani trattavano male le ragazze, rovesciando i piatti della minestra insipida e chiamandole puttane. Erano malati, certo, ma la scusa non reggeva per tutti. A volte pensava che anche se avessero negato loro un accompagnamento al bagno o un bicchiere di vino in più, avrebbero avuto le loro buone ragioni. Nella classifica dei vecchi cattivi, Romeo era di certo sul podio. L’immagine dei nonnini deboli e affettuosi era pura retorica. E la retorica è come lo zucchero filato: ti riempi la bocca di una nuvola bianca e dopo pochi secondi rimane solo uno sputo dolcissimo. Spesso l’età non porta nient’altro che l’età. Il tempo non dona saggezza alle anime buie, e anche se ci ostiniamo ad amarle, se riserviamo loro ancora più attenzioni quando si indeboliscono, esse non smettono di farci del male. I cattivi non provano rimorsi né vergogna, e se non riescono più a colpirti con la forza, lo fanno con la pena. Il senso di colpa è per loro come la tela di Penelope: per non farlo finire mai, lo tessono durante il giorno, poi di notte lo distruggono e ricominciano il mattino seguente. Spesso, nel linguaggio scellerato e reso difficoltoso dalla paralisi, suo marito la rimproverava per averlo “messo dentro”: le urlava di non farsi più vedere e poi la implorava di portarlo a casa. Lei reagiva con il silenzio, l’unica forma di lotta che conosceva. “In questi frangenti è la malattia che parla”, le diceva la psicologa. Poi una volta che si era sfogato, riusciva a chiederle scusa e piangeva a dirotto ed era in quel momento che lei si sentiva annientata, perché forse a casa lo poteva tenere o almeno avrebbe dovuto coinvolgerlo in una delle decisioni più difficili della loro vita. Il senso di colpa è la relazione più forte e duratura che si possa costruire tra esseri umani; è la sintesi perfetta dell’equilibrio: un palo forte che ne sostiene uno sghembo. Lei era il palo sghembo e Romeo uno stronzo, in fondo. La pietà provata il giorno in cui si era smagliata le calze buttandosi a terra davanti agli omogeneizzati era un sentimento assoluto che veniva da lontano. Era la compassione che si ha verso gli animali feriti, verso la vita fisica che non regge più il peso della sopravvivenza. Era la pena verso un corpo quasi spento, al di là di chi lo abita.

Prima che lui si addormentasse gli rivolgeva sempre l’ultima occhiata pensando a cosa avrebbe dovuto dire alle ragazze prima di andar via: quanto aveva mangiato, se aveva evacuato, se il giorno dopo era meglio rifargli la barba. A volte, mentre lo guardava, la coglieva una riflessione tetra, che scacciava via come una mosca cattiva. Si trattava della consapevolezza che quella fine forse la meritasse davvero. L’amore è capace di violenze inaudite e una delle più subdole è restare insieme, anche se l’unica cosa che unisce due anime è il senso del dovere. Siamo così inclini a far guidare la nostra esistenza dall’opinione altrui che ad un certo punto è come se mettessimo il pilota automatico e gli facessimo decidere la strada senza chiederci più nulla. Ogni tanto le sembrava di esser stata catapultata lì da un altro pianeta, come se in quel momento della sua storia ci fosse arrivata per caso. Anche ora era così. Seduta sul divanetto mentre sfogliava un giornale che non leggeva, si guardava vivere da lontano e il pensiero le dava le vertigini. Quali bivi aveva preso per arrivare fin lì? Che le era successo? Era in attesa di un dottore che le avrebbe annunciato la morte del marito, un uomo per lei quasi estraneo ormai. Perché aveva scelto lui? Quando aveva deciso di tenerlo comunque, nonostante la vergogna provocata dai suoi vizi e il sottile disprezzo che le aveva fatto alzare i livelli di cortisolo e di glicemia? C’era rimasta assieme per salvaguardare l’opinione che gli altri avevano di lei? Ma se alla prima difficoltà l’aveva sbattuto in un istituto, le importava davvero ciò che pensavano gli altri? Quello che aveva fatto le pareva ora l’unica cosa sensata. In questa guerriglia di pensieri, sentì una mano appoggiarsi sulla sua spalla. Era quella di Micaela, la riconosceva per l’odore di antisettico che era solita strofinarsi appena si toglieva i guanti. “Seguimi Elsa, il dottore ti deve parlare”. Lo raggiunsero nell’ambulatorio, scavalcando alcune carrozzine parcheggiate. Il medico le chiese se aveva compreso che Romeo non c’era più. Lei annuì senza e abbassò la testa, guardandosi l’orlo stropicciato della gonna. Avevano chiamato il 118 quando le condizioni erano ormai disperate. Una delle ragazze era andata a prenderlo per portarlo a fare ginnastica e l’aveva trovato in stato comatoso, con il viso blu e gli occhi assenti. Micaela aveva allertato il 118. Lo avevano prelevato a sirene spiegate e poi portato in pronto soccorso. Quando arrivò, la glicemia era a terra. Avevano tentato di idratarlo per riassestare i valori, ma ormai era troppo tardi. Micaela stringeva nelle mani tremanti lo schema glicemico della giornata: era sicura di aver fatto le dosi prescritte ai pazienti corretti. Non poteva essersi sbagliata, Micaela. Elsa lo sapeva quanto era brava e accorta. Anche quando non era in turno poteva chiamarla per un consiglio, un consulto, anche solo per sfogarsi. Il medico continuava a schiarirsi la voce. Se Elsa aveva domande le avrebbe potute fare. Se ora era troppo scioccata, poteva tornare domani, nessun problema.

Sapendo di avere tutta l’attenzione su di sé e toccando in maniera quasi sensuale la loro paura, si alzò stirando la gonna con le mani. Li guardò. “So con quanto amore avete curato il mio Romeo. Scusate…” e si asciugò il viso con un fazzoletto. “Di certo c’è stata una negligenza da parte vostra. A volte il personale è carente. Alcune dipendenti sono frettolose e impreparate. Ma hanno una famiglia pure loro. Probabilmente arrivano al lavoro piene di pensieri, di dubbi. Non è mia intenzione, mettervi nei guai, se è questo che mi state chiedendo. Ecco perché – riprese dopo una pausa, con le lacrime di rimmel che scendevano fino alle labbra – le ragazze prima non mi hanno nemmeno salutato. Mi dispiace molto. Mi conoscete, sapete che vi ho sempre portati su un palmo di mano. Spero lo capiate e mi stiate vicine in momento così difficile. So che non aveva molto tempo ancora…ma avrei voluto dirgli addio”. Micaela le toccò di nuovo la spalla. L’odore di antisettico era evaporato. Le concesse un freddo abbraccio, prese la borsa e se ne andò. Camminando per il corridoio sentì gli sguardi delle ragazze appoggiarsi sulla sua nuca come avvoltoi. Adelina, col suo passo lento di marinaio tentò di raggiungerla, per darle chissà quale strana versione dell’accaduto. Sembrava la strega delle fiabe, chiusa nella mantellina in cui nascondeva i frutti velenosi della sua solitudine. La casa di riposo sembrava ora una foresta oscura, densa di intrighi e segreti, in cui si camminava tra sterpaglie di rancori. L’eco dei tacchi sulle scale lasciò spazio al canto dei passeri. Era finalmente uscita. Lì dentro non ci avrebbe più messo piede. Si voltò per un solo attimo, scacciando corvi immaginari dalla scapola. Con un movimento silenzioso toccò la siringa di insulina lasciata nella tasca esterna della borsetta. L’avrebbe smaltita nel cestino della piazza, dopo aver bevuto un caffè sotto il cielo azzurro mare.

Federica Marangon

 

COMBATTERE I DISCORSI D’ODIO IN TRE SEMPLICI MOSSE

È una domenica d’agosto, in un tranquillo paese di provincia la gente passeggia in infradito tra le bancherelle del mercato, pronta ad andare verso il mare. Nella piazza della chiesa, il Sindaco tiene un discorso in memoria del Brigadiere Mario Cerciello Rega, ucciso in servizio nella notte del 26 luglio scorso. Con gli occhiali scuri, il sudore colante dentro e fuori il completo blu e la fascia tricolore, tuona contro gli assassini e chi li difende, cioè “la sinistra” (www.tpi.it/2019/08/06/)

Devono marcire in carcere gli assassini”, grida tra gli applausi. Si scaglia contro i rossi che, senza vergogna, “hanno immediatamente spostato l’attenzione sul comportamento dei carabinieri, inscenando una sorta di processo mediatico per una foto dell’assassino bendato apparsa sui giornali”, riferendosi all’immagine in cui uno dei colpevoli compare bendato e ammanettato nella sala dell’interrogatorio, episodio al centro di un’indagine interna avviata dallo stesso Giovanni Nistri, Comandante generale dell’Arma dei Carabinieri (https://www.ilmattino.it/primopiano/).

Il sindaco conclude l’invettiva appellandosi ai “valori smarriti” che ci fanno schierare dalla parte sbagliata, cioè “la sinistra”. L’assunto è quindi questo: se hai votato sinistra, difendi gli assassini del brigadiere Cerciello Rega. Lo sostiene la più alta carica del paese di Solesino, votato da un cittadino su tre alle amministrative del 2018.

Che cosa ci sta succedendo?

IL FLUSSO DI INCOSCIENZA

Il discorso d’odio del sindaco ci indigna soprattutto dal punto di vista morale. È ingiusto essere paragonati agli assassini solo perché si vota sinistra e la paura rossa sta tornando come un rigurgito maccartista. In realtà dovrebbe stupirci innanzitutto la totale assenza di logica. Le sue parole corrono per conto loro e dimenticano (più o meno consapevolmente) i fatti. Se provate a chiedere al Sindaco i nomi degli esponenti PD che hanno difeso gli assassini, vi risponde con uno screen di “Rassegne Italia” (https://www.rassegneitalia.info/), pagina che ha la decenza di definirsi “non una testata giornalistica, ma un contenitore di informazione on-line rivolto ad un pubblico di destra”. L’argomentazione a sostegno della sua tesi è questa: “La sinistra si indigna più per un criminale bendato che per un militare ucciso”. Basta a far comprendere ai cittadini che il discorso del sindaco è, prima che oltraggioso, insensato? No.

Chi difende la posizione del sindaco si appella alla necessità di maggior tutela nei confronti delle forze dell’ordine. Un signore sostiene che la sicurezza è in pericolo a causa degli immigrati i quali, a suo dire, costituiscono il 95% delle presenze in carcere. Quando chiedo dove ha trovato il dato, mi dice di informarmi telefonando al Due Palazzi (il carcere di Padova). Gli rispondo che i dati ci sono e gli stranieri sono il 50%. A quel punto mi accusa di essere “fissata con le percentuali” (nonostante abbia iniziato lui) e che anche se credo non siano vere, non importa. Il signore è un caso raro? No. Spulciatevi qualche commento riferito ad un qualsiasi evento di cronaca nera e vedrete cosa ne esce.

L’accozzaglia livorosa di opinioni prive di fondamento è potenzialmente infinita e non arginabile. Se per credere a qualcosa non ho necessità di conoscere i fatti, allora i fatti non saranno mai in grado di dimostrarmi che quella cosa non è vera. Credere ad una menzogna significa perdere la coscienza di sé e del mondo, mettendoci in balia di correnti di potere che ci rendono fragili dandoci l’impressione di essere forti perché “diciamo quello che pensiamo”.

I discorsi di politici come il sindaco (il cui motto è, peraltro, “dalle parole ai fatti”) sembrano sfruttare il “flusso di coscienza”, la tecnica narrativa che consiste nella libera rappresentazione dei pensieri così come paiono nella mente, prima di essere riorganizzati logicamente in frasi. L’intento del Sindaco, però, è esprimere un’idea chiara e muovere potenti accuse, non recitare un monologo interiore alla James Joyce. Di conseguenza il discorso non risulterà strambo e autentico come un flusso di coscienza: sarà banale e truffaldino come la retorica salviniana. In tal modo non esce la parte più pura e sconvolgente della coscienza, ma quella dell’incoscienza di chi parla e di chi ascolta annuendo. È normale che la gente lo sostenga e lo condivida? Sì.

DOVE OSANO LE BUFALE

Un recente studio svolto dal MIT (Massachussetts institute of technology) di Boston ha analizzato per la prima volta in modo estensivo i meccanismi di diffusione delle notizie false in rete. A livello neurale, le notizie che non superano la verifica dei fatti hanno un impatto emozionale più potente: sono costruite in modo tale da ispirare rabbia, disgusto, dolore, oltre ad essere più accattivanti di quelle vere. Una notizia falsa ha il 70 per certo di probabilità di essere condivisa più di una notizia vera. Non solo: le notizie politiche false viaggiano al triplo della velocità di ogni altra notizia falsa, raggiungendo il doppio delle persone. In questo caso i veicoli non solo sterili algoritmi, ma le scelte consapevoli delle persone, tanto che non importa chi le condivide (se persone famose e popolari) ma in quanti le fanno girare. Non sono tanti quelli che le inventano, ma troppi quelli che le diffondono (ilsole24ore.com/video/notizie/ecco-come-nasce-fake-news).

Nel 2016, il ventenne Gianluca Lipani è stato denunciato dalla polizia postale per istigazione alla discriminazione razziale. Aveva messo in giro la voce che il PD obbligava ogni nucleo famigliare ad ospitare un Rom. La notizia è stata condivisa da più di trentamila persone. Gli sponsor pagavano due euro ogni mille visualizzazioni e alcune news ne hanno contate 6 milioni (per un totale di 12.000 euro a bufala). Un modo per far sì che una notizia falsa venga creduta vera è il registro linguistico (come insegna lo stesso Lipani): il testo deve essere comprensibile e grammaticamente scorretto, come se il linguaggio di qualità fosse il cavallo di troia della menzogna.

Le fake news attirano l’attenzione perché soddisfano le convinzioni della gente. L’invenzione narrativa percorre l’abisso che davvero porta “dalle parole ai fatti”: un pregiudizio (il Rom che ti ruba la casa) trova la sua evidenza concreta e non mi interessa verificarla perché è la mia convinzione ad essere vera. Nel caso specifico, l’odio verso la sinistra – orizzonte della sua campagna e del suo elettorato – viene giustificato dalla bugia che “tutti” i democratici siano dalla parte degli assassini. Il sindaco ne trae beneficio in consensi così come le aziende guadagnano con gli investimenti pubblicitari. Può essere utile obiettare dicendo che le sue sono insinuazioni prive di prove? Certo che sì.

 “IL SINDACO E’ NUDO!” L’effetto Dumbing down

 

Il caso del sindaco è emblematico e rappresenta la deriva verso la quale si sta spingendo la politica nazionale. Lo chiamano effetto “dumbocracy” (“instupidimento della democrazia”) e prevede che il leader non rappresenti le migliori qualità del popolo, bensì la somma degli istinti peggiori. Diventa quindi una sorta di somma al ribasso (down). Come si è arrivati a questo punto?

Isaac Asimov, autore di romanzi di fantascienza, sosteneva che una mistificazione della democrazia portasse a pensare che “la mia ignoranza ha lo stesso valore della tua conoscenza”. Si è sempre più sospettosi verso le persone “di cultura” che si esprimono in maniera educata e la misura evidentemente puzza di  truffa. Quando ascoltando un politico diciamo “senti come parla bene!” non intendiamo che ne sappia più di noi, ma che “ha detto delle cose vere perché anch’io le avrei dette così”.

Il fatto che possiamo dire liberamente ciò che pensiamo ad una platea potenzialmente mondiale ci ha montato letteralmente la testa: i like e le condivisioni dei nostri pensieri creano gli stessi effetti di euforia e dipendenza delle droghe, del potere, del sesso. Il paradosso è scambiare per “realtà” qualcosa che di autentico non ha più nulla. Noi diamo agli altri un’immagine in cui mostriamo ciò che gli altri dovrebbero vedere. Il rigetto dei filtri della decenza fa dilagare la menzogna non la verità: per tornare al discorso del sindaco, a differenza del flusso di coscienza, la sua raffica di nonsense non svela l’autenticità della sua essenza ma l’inganno di un’immagine costruita per attirare consensi.

Durante la cerimonia solenne la gente applaudiva mentre il sindaco lanciava anatemi verso la minaccia rossa, eppure il giorno seguente la stampa, l’opposizione e l’arena facebook non sono stati clementi. La solennità dell’occasione imponeva un rituale decoroso che nessuno si è sognato di alterare, ricordando la favola di Andersen “I vestiti nuovi dell’imperatore”. La storia racconta di un sovrano vanitoso molto attento all’abbigliamento. Un giorno a corte si presentano due imbroglioni e gli vendono un vestito fatto di un tessuto talmente bello da risultare invisibile agli stolti e agli indegni. In realtà nemmeno il re lo vede, ma per non risultare indegno finge di lodare la stoffa. Col nuovo vestito sfila quindi per la città, mentre i sudditi che non vedono nulla, per non esser giudicati male, applaudono l’eleganza del sovrano. L’incantesimo è spezzato da un bimbo che, sgranando gli occhi, grida con innocenza “Il re è nudo!”, mentre il sovrano cammina come se nulla fosse successo.

In questo caso, il ruolo del ragazzino l’ha giocato il quotidiano online The Post International (TPI) che, avulso dalle lotte locali tra maggioranza e opposizione, ha definito il discorso “inquietante”.

Il sindaco è ormai nudo.

TRE FACILI MOSSE PER SOPRAVVIVERE AI DISCORSI D’ODIO

Vivisezionare episodi come quello descritto è utile per capire come uscire da questa inquietudine. Le mosse per rispondere in maniera utile e virtuosa ai discorsi d’odio sono tre:

Numero 1: Essere più informato di chi stai contestando

Vince la guerra chi ha le armi più forti. Nel ragionamento, la prima munizione è la conoscenza. Parlare solo di ciò che si conosce è fondamentale. Le fonti consultate devono essere attendibili e si devono citare sempre. La prima fonte è l’oggetto della nostra critica: pur con molto fastidio, il discorso da prender di mira va praticamente imparato a memoria. Bisogna leggerlo e rileggerlo affinché riusciamo ad “entrare nella sua voce”, apprendendo lessico, sintassi e stile. Il resto sono libri, articoli, trasmissioni radio e anche due chiacchiere con persone di diversa cultura e opinione politica, per comprendere come parlare ad un target più vasto possibile. La conoscenza ci rende inattaccabili, il che non vuol dire che troveremo adesioni verso la nostra idea ma che essa verrà ascoltata. Vi chiedete come è possibile visto che sono le bufale e non la verità ad attirare l’attenzione? Prendete spunto dallo stile della fake news, epurandolo dalla violenza e scorrettezza grammaticale, portando al massimo livello di qualità e lanciandolo con nobili obiettivi. Non spaventiamoci se abbiamo pochi like: c’è chi ha il timore di dire “il re è nudo” ma vi leggeranno più persone di quante immaginate.

Numero 2: Non odiare

In guerra le armi non bastano: serve pure una strategia. Il rischio che si corre quando si attacca un discorso d’odio è renderci odiosi. Purtroppo ad essere contagiosi sono i virus e le malattie, non le virtù. Non bisogna mai abbassarsi alla violenza di chi ribatte, magari insultandoci. Questo non significa prendere e incassare, ma dimostrarsi umilmente superiori. Il motivo è che lo scopo della nostra battaglia è davvero migliorare lo stato delle cose. Attenzione al dosaggio dell’ironia: nessuno deve sentirsi preso in giro per le proprie idee e il modo in cui le esprime. Anzi: più sarà in grado di comprendere l’ironia e più la useremo. Se invece non coglie, lasciamo perdere. Ricordate che rispondere con un fatto comprovato ad un insinuazione aggressiva nel lungo periodo paga e, comunque, potrete far circolare una notizia vera che, se ben detta, avrà una rispettabile diffusione.

Numero 3: Prenderla come una missione

Una tecnica di guerra è il logoramento. Chi non ha armi e strategie, punta tutto sulla resistenza. L’esaltazione che vi dà rispondere per le rime a chi ha espresso un discorso d’odio ha effetti brevissimi. Appena la discussione si accende, iniziate ad annoiarvi e sentite che state sprecando tempo e che invece di dedicarvi alle vostre passioni siete impegnati nella missione impossibile di far passare concetti utili. Ecco, si tratta proprio di una missione: cercare di apportare un valore aggiunto confrontandovi con chi odia è di fatto un servizio e va svolto con dedizione. Non mollate mai, non iniziate a dire che facebook è un contenitore di cazzate: i social sono ormai le nostre piazze nonché fabbriche di consenso. Chi ha cambiato davvero le cose è perché non ha mai smesso di crederci e ha dedicato tempo ad una causa che magari per molti non significava molto.

Gutta cavat lapidem e un ragionamento cambia le coscienze.

ARROSTO DI UOMINI CATTIVI. Un racconto.

Nonostante lo preparasse da anni, manteneva comunque alcune inquietudini. L’arrosto di maiale era il classico piatto della domenica. Per anni lo aveva cucinato sua nonna, poi sua madre e infine lei, la moglie.

L’arrosto di maiale è un piatto difficile. Prevede la scelta perfetta della carne, comprata dal macellaio di fiducia, che lo disossa e pulisce col camice bianco schizzato di porpora. Per riuscire a comprare il lombo carico di muscoli, devi capitare nel giorno giusto, all’ora giusta e devi pure star simpatica a chi te lo vende. Devi dimostrarti sicura ma non saccente, ossequiosa ma non leccapiedi. E poi c’è il tempo, l’alleato della buona cucina. Il tempo e la temperatura. Non bisogna mai aver fretta di portar in tavola l’arrosto. Bisogna scaldarlo e raffreddarlo per mantenere il miglior sapore. L’arte dell’arrosto è l’arte delle mogli: una catena strategica di temperature e sapori, una tortuosa ricetta dove se fai quel che ti salta in mente, rischi di bruciare tutto.

Elsa quella domenica non aveva alcuna voglia di cucinare. La faccia di Rossana, paonazza sotto le penne tremolanti del cappello, le era ancora davanti agli occhi. Capiva che l’aveva fatto solo per il suo bene, e dagli occhi gonfi e umidi si vedeva che aveva passato la notte in bianco, indecisa se dirglielo o meno. Ma di certe cose si parla solo quando si hanno le prove.

L’emulsione di olio e erbette era ormai pronta. L’aveva lasciata a riposare più del dovuto, smarrita nei voli di rondine della primavera appena iniziata. Pensò che quest’anno avrebbe dovuto cambiare le tende. Si tolse la fede e gli anelli e iniziò ad immergere il pezzo di carne nell’olio saporito. La carne fredda al contatto con l’olio le scivolava come fosse ancora viva. Aveva provato, un tempo, a diventare vegetariana. Un’amica veterinaria le raccontò di come gli animali, prima di essere uccisi, vengono invasi dalla paura. La paura di morire scatena in loro una tempesta di ormoni: il terrore scorre nelle arterie e nelle viscere e noi, le disse l’amica, “ci mangiamo la loro paura”. Non era facile, però, giustificarsi durante le cene con gli amici. “No, lei non mangia carne” diceva il marito sorridendo, “è diventata vegetariana”. Per scherno o per autentica curiosità, si trovava a dover rispondere a chi le chiedeva se fosse una decisione dettata dal senso etico o da problemi di salute e, in questo caso, l’interlocutore le guardava il giro vita troppo abbondante o il sottogola gonfio.

Durante le numerose cene a cui era costretta a presenziare dato il ruolo del marito, si accorgeva sempre di come si è destinati a diventare ciò che si era prima. Adolescente goffa e scontenta, persa nei mondi sublimi delle letture e della vita selvaggia, non era mai piaciuta davvero a nessuno. E nonostante si fosse sforzata a trovare un marito agiato con un’ottima posizione sociale, bastava uno sguardo ambiguo a farla ritornare la ragazzina sconfitta di allora. Senza poter scappare a piedi nudi a raccogliere rane e fichi, era costretta a star seduta e sorridere, come una bestia che secerna paura.

Ora era venuto il momento di legare il pezzo di carne con lo spago. Doveva strizzare quell’ammasso rosso vivo per mantenerlo unito nel caldo del forno. In fondo era il compito di una moglie tenere insieme i pezzi anche in mezzo all’inferno. Mentre cercava lo spago nel cassetto della cucina, rivedeva gli occhi gonfi di Rossana, che parlavano ancor prima della sua bocca. “Ho sentito una cosa che spero non sia vera”, aveva esordito.

Il marito di Elsa era a capo di un’azienda produttrice di tondini di ferro per cemento armato. Da sempre faceva parte del mondo del volontariato, era una figura fondamentale in parrocchia e nelle associazioni ricreative. Ogni tanto mostrava vecchie foto ai nipoti raccontando infinite storie, dai tempi dei calzoncini corti da capo cannoniere, fino al grembiule unto di grasso da chef esperto delle sagre. Lui ed Elsa si erano conosciuti durante una festa di paese. Aveva fatto molto per la comunità, godeva del rispetto di tutti. Da qualche anno allenava la nascente squadra di calcio femminile. Si trattava di un esperimento interessante, ne avevano parlato pure i giornali locali. Le ragazze andavano dai 13 ai 16 anni e avevano aderito in molte. Praticare uno sport che è appannaggio maschile dava loro una sensazione di rivincita e libertà.

Elsa trovò lo spago da arrotolare attorno al pezzo di maiale profumato. Rossana era capitata a casa sua di buon mattino, mentre il marito era alla partita con le ragazze. Senza tanti preamboli, accaldata e gonfia, Rossana le aveva confidato quel che si diceva in giro. Alcune giocatrici parlavano di atteggiamenti non proprio consoni da parte del mister, come battute ambigue e pretese strane. Dapprima Elsa rise. Quando suo marito iniziò ad allenare la squadra lo mise in guardia sulla cattiveria della gente, visto i tempi che corrono. Gli disse di stare sempre attento e di evitare di passar troppo tempo solo con le giocatrici. Lui sghignazzò, considerando un’infamia simile qualcosa di irreale. Quelle erano ragazzine che aveva visto nascere e crescere insieme ai nipoti. I genitori le mandavano da lui per dar loro un’educazione solida, tanto che molte  erano alunne problematiche, tendenti all’indisciplina. Se dapprima l’insinuazione di Elsa lo fece sorridere, poi finì per irritarlo. Il fatto che sua moglie pensasse una cosa simile lo imbarazzava. Nonostante Elsa cercò di ripetergli che non era un sospetto bensì un rischio a cui si esponeva dato i tempi che corrono, lui non volle sentire più nulla. Si rinchiuse nella taverna tra vecchi vinili e ci rimase fino al mattino.

Quando Elsa disse a Rossana che stava insinuando cose gravi e che almeno avrebbe dovuto avere delle prove, l’amica rovistò nella borsa e tirò fuori il telefonino. La mamma di una ragazzina le aveva inviato la conversazione tra lei e il mister. La ragazzina era il capitano della squadra e gli aveva mandato una foto con le amiche mentre prendevano un gelato dopo la vittoria. Suo marito aveva scritto una cosa del tipo “non mangiate troppo gelato altrimenti ingrassate le vostre belle gambette”. Da lì in poi la chat continuava, ma Elsa ormai non capiva più nulla. Cacciò Rossana, o forse la ringraziò, non ricordava bene. Era certa di averla accompagnata alla porta, girando la doppia mandata e appoggiando le spalle al legno, mentre lo scacciapensieri mandava un infinito tintinnio. Guardò verso la cucina e vide la carne rossa che aveva tolto dal frigo per far l’arrosto. La carne, perché la carne era così importante? La gente non nota quanti libri hai letto o quanti sacrifici hai fatto nella vita: osservano solo se ingrassi o dimagrisci e da lì traggono denigrazioni o complimenti. Le donne non hanno quasi mai tempo di rendersi conto della loro bellezza. Nel momento in cui inizi ad acquisire una certa consapevolezza del tuo valore, quando hai un bagaglio interessante di gioie e sofferenze, allora il tuo corpo inizia a sfiorire e non ti guarda più nessuno. Sono considerazioni che paiono luoghi comuni ritriti; eppure con l’avanzar degli anni – quando il futuro si accorcia donandoti un’estrema capacità di sintesi – scopri che sono la Verità.

Anche se non li aveva mai davvero cercati, l’esistenza di Elsa ruotava attorno agli uomini. Il sesso maschile era per lei come il perno di un mappamondo. In principio era il padre, burbero e saggio, a dettar le leggi dell’universo, ad insegnarle cosa era giusto e cosa era sbagliato. Dalla madre aveva imparato il silenzio e la pazienza. Tentò, dopo gli anni di studio, di essere economicamente indipendente. Sapeva che la vera emancipazione femminile passava per la gestione di un conto corrente tutto suo. Prima di trovare un buon marito, cercò un ottimo lavoro. L’incontro con un imprenditore di successo, però, le fece cambiar sentiero. Non le dispiaceva, in fondo, la vita agiata e invidiata. Le vacanze, le stoffe pregiate, i ristoranti rinomati. Era fedele e sicura, attenta ai figli e alla casa. Come poteva pensare che due giovani cosce avrebbero frantumato quella cattedrale luminosa? Aveva stretto l’arrosto così forte che i rivoli di sangue schizzarono sul piano cottura. L’odore ferruginoso e selvaggio la fece quasi lacrimare.

Quanto valeva davvero l’arrosto di quella domenica? Fece rosolare una noce di burro sulla pirofila e per insaporire la carne. Al contatto col calore, il pezzo di bestia perdeva acqua rosa mandando un sibilo confuso di antiche grida. Eccola, pensò, la memoria della paura. Il seguito lo conosceva già. Era preparata ai risolini delle amiche durante la messa, mentre l’andirivieni del ventaglio mostrava ad intermittenza le bocche cattive. Era un po’ meno preparata alla preoccupazione dei familiari, la vergogna dei figli. Si trattava di una di quelle notizie che sarebbe girata per le tavole imbandite e i caffè presi al volo. Lei, oggetto di scherno per colpa di un maschio che non aveva saputo frenar le voglie. Riflettere e rimuginare sui fatti della vita era per lei una prassi conosciuta. Sapeva convivere coi pensieri fissi e ci sarebbe riuscita anche stavolta. Pur avendo una vita quieta e abitudinaria, la sua mente non era mai ferma. Le femmine che godono di molto tempo libero spesso lo impiegano per raccogliere i fatti, setacciarli ossessivamente e ridurli a concetti astratti fragilissimi, destinati a crollare in pochi secondi di fronte ad accadimenti inaspettati. Se avesse provato ad estendere i pensieri inutili come un filo di lana, avrebbe raggiunto la luna. Il tempo trascorso sulle elucubrazioni solitarie erano giorni buttati via.

Ora, invece, ragionare sensatamente le risultava quasi impossibile. Sbucciò lo spicchio d’aglio e mezzo scalogno. Poi prese la pirofila e si guardò sul vetro del forno. Immaginò come sarebbe stata la vita senza di lui. Quante esperienze avrebbe potuto fare, senza i figli, i vincoli familiari. Una donna sola, libera, piena di opportunità. Ma poi pensò che non avrebbe fatto comunque nulla di importante. La ragazzina goffa e timida in cerca di rane e fichi sarebbe sempre riapparsa, a ricordarle che il nostro destino è segnato nelle pieghe casuali del DNA, nei difetti del fisico, nei vizi del sistema endocrino. Carne che tenta di raggiunger le stelle e al minimo malanno interrompe il sogno di gloria. Con quella faccia, con quel corpo, dove sarebbe andata? Era ossessionata dall’estetica che, fieramente, teneva lontano, con un istinto di repulsione originato da un’inconsapevole desiderio. Ipotizzava di valere quanto la sua avvenenza, cioè nulla. E mentre l’arrosto imbiondiva sotto un ramo di rosmarino sempre più scuro, pensò che in fondo nutriva un po’ di invidia nei confronti di quelle ragazzine, belle come lei non era mai stata, desiderate dal marito più di lei, senza aver fatto nessun sacrificio, nessuna rinuncia, nemmeno un arrosto.

Puntò il timer. Il tempo, il tempo devastante che lei aveva perso a pensar l’inutile. Il tempo ora le pareva una vampata divorante. Si parlava di anni, di decenni, quasi di mezzo secolo. In mezzo secolo potevano accadere un sacco di cose. A lei non era accaduto nulla di rilevante, questa era la verità. Spesso la gente appare felice anche se non lo è. Ma il dubbio se sia meglio una felicità finta o un’insoddisfazione vera rimaneva sempre vivo e correva nelle sue vene: la gonfiava di rabbia inespressa, di cortisolo che la ingrassava e non le faceva più chiuder le gonne, mettere il bikini, sognare un appuntamento galante. Il cibo, sempre a pensare a cosa cucinare, a come far ingrassare quella bestia che si trovava in casa. Un maschio stupido, come tutti i maschi, perso tra corpi attraenti, immune alle gioie pure, autentiche.

Il forno strillò. Pareva lo avessero sentito anche le rondini, scappate in capovolte azzurre. Prese il coltello. Tagliò l’arrosto a fettine. Fette fine, sempre più fine, affondando la lama in quel cadavere ricomposto e profumato, la bestia messa a nuovo. Lo cosparse di grasso, lo mise nel piatto d’argento. Pensò che la peggior vendetta verso suo marito sarebbe stata tenerselo con sé. Inasprirlo con battute violente, rifiutarlo ogni volta che a letto avvicinava un piede al suo, continuare a cucinare bene e odiarlo ancor meglio. Non valeva la pena ribellarsi a quello stato di tedio e profondo disamore. Era comunque tutto ciò che aveva, tutto ciò che aveva saputo costruire. Avrebbe combattuto come hanno fatto per secoli le donne in lotta con gli uomini cattivi: essere sempre presenti, non mollarli mai, restare fino alla morte attaccate a loro come la disgrazia più grande. Era comunque suo.

Quando tornò, senza lavarsi le mani, lui prese una fetta d’arrosto e la trangugiò. “Sei sempre avara di sale”, disse. E lei sorrise.

I PANNI SPORCHI (NON) SI LAVANO IN FAMIGLIA: storia di lenzuola ribelli.

“Gnanca na busìa”: la vita in un lenzuolo. 

Da una ricerca della Clinica del Sonno di New York, i motivi per cui non riusciamo a dormire senza lenzuola sono due: il primo è fisiologico (mantenere regolare la temperatura corporea anche durante il sonno), il secondo è psicologico e culturale. Le lenzuola ci riportano alla pace del grembo materno e ci ricordano la dolce immagine dei genitori che ci rimboccano le coperte.

Le avventure della biancheria da letto ricalcano la storia dell’umanità. Gli antichi romani ricchi dormivano su letti di piuma d’oca e i poveri su giacigli di paglia. Non si utilizzavano le lenzuola: rientrati nella domus, si toglieva il mantello e ci si buttava addosso una trapunta di pelliccia. L’usanza delle lenzuola (dal latino “fatte di lino”) si diffuse nel Medioevo. Nel XIV secolo, un ricco borghese scrisse il “Ménagier de Paris”, un trattato sui comportamenti da tenere in casa dedicato alla giovane sposa. Oltre ad insegnarle come cucinare “pesci di mare mosso” e “pesci di mare calmo”, descriveva come accogliere il marito al rientro dal lavoro: “farlo coricare nelle bianche lenzuola, con una bianca cuffietta, ben coperto sotto calde pellicce, e colmarlo di altre gioie, battiti, libertà, amori e segreti che passo sotto silenzio”.

Le donne e le lenzuola hanno una storia tutta loro. Ancora oggi è diffusa l’usanza di donare alla sposa il corredo per la nuova casa e la nuova vita, lontano dal mondo dell’infanzia. La tradizione dell’esposizione del lenzuolo macchiato di sangue dopo la prima notte di nozze proviene dall’area mediterranea e alcune anziane la ricordano ancora. La virtù di una donna era arrivare vergine al matrimonio. Il marito era tenuto a mostrarla questa virtù, stendendo l’impudica prova sul balcone.

Esiste anche una storia struggente e dolcissima che ha come protagonista Clelia Marchi, una contadina di Poggio Rusco (Mantova). Vedova e sola, decide di raccontare la sua vita scrivendola sul lenzuolo nuziale ormai riposto nell’armadio. Sulla stoffa, riga per riga, rivive la fatica del lavoro sui campi, l’incanto dell’incontro con il grande amore e la semplicità di una vita nascosta nella pianura padana. Un giorno Clelia decide di portare il lenzuolo al Museo dei Diari di Pieve di Santo Stefano, in provincia di Arezzo (www.piccolomuseodeldiario.it) e lo presenta così: “Care persone, fatene tesoro di questo lenzuolo che c’è un po’ della vita mia; è mio marito. E qua non c’è gnanca na busìa”.

Storie di lenzuola ribelli 

Nonostante fosse lontana l’era dei social, vi era nel passato una dimensione intima che veniva resa pubblica. O meglio, si decideva in che modo e in che quantità dare il proprio privato in pasto alla massa. Lo si faceva un po’ per convenienza e un po’ per scelta, perché la condivisione a volte moltiplica la felicità del singolo, amplifica l’emozione del ricordo.

In questi giorni è nata una strana rivolta in Italia: nelle città in cui Salvini si presenta per tener comizi, qualche famiglia espone un lenzuolo per esprimere il proprio dissenso, talvolta con grande ironia. A Bergamo il lenzuolo incriminato è stato rimosso dai vigili del fuoco, con un dispiego di mezzi che ha fatto indignare un’intera nazione. Nell’epoca in cui le opinioni possono essere liberamente espresse su un network che ha copertura universale, si torna ad un’estetica antica.

La rimozione dello striscione con la scritta “non sei il benvenuto” colpisce perché non si tratta della censura di un tweet o di un post, ma appare come un’aggressione fisica alla libertà d’espressione. La comunicazione politica attuale passa soprattutto per canali “fisici”. Il corpo del leader è l’oggetto su cui il potere si manifesta e diventa parte integrante della sua campagna elettorale. Siamo partiti da Berlusconi che divulgava diete miracolose, si stendeva la pelle della faccia, si piantava i capelli. I suoi bollettini medici sono dati con una precisione quasi invadente. Poi Grillo, che ansimava e sputacchiava mentre si faceva prendere dal pathos del cambiamento. E ora la bulimia fotografica di Salvini: Salvini mezzo nudo con la fidanzata, Salvini che mangia di tutto, Salvini che cerca di smettere di fumare, Salvini con la felpaccia pop. Un corpo che è, di fatto, programma politico.

La figlia di Aldo Moro, Agnese, raccontava che il padre andava al mare con la giacca elegante. “Essendo rappresentante del popolo italiano” – spiegava – “devo essere sempre dignitoso e presentabile”. Aldo Moro comunicava con un’Italia diversa o era un politico diverso? Quando siamo diventati così social e allo stesso tempo così preoccupati dell’altrui opinione?

I panni sporchi non si lavano più in casa propria, ma forse la tendenza alla pubblicizzazione dei propri moti interiori non è poi così moderna: siamo solo progrediti nei mezzi. Il paradosso sta nel fatto che la persona che più espone la propria vita (compresa quella fisiologica) è la stessa che decide cosa si debba mostrare e cosa no.

Poco tempo fa ho letto una storiella Zen in cui la sposa nota che la vicina mette ad asciugare lenzuola sporche. Lo ripete continuamente al marito, fino al giorno in cui le lenzuola appaiono bianche e splendenti. “Guarda, finalmente ha imparato a fare il bucato!”; “No” – risponde lui – “ho solo pulito la nostra finestra”. Spesso il mondo è come noi lo guardiamo. E prima di dire che il lenzuolo è da rimuovere perché indecoroso, chiediamoci se abbiamo fatto il bucato ai nostri occhi.