Si era seduta sul divanetto dell’ingresso e sfogliava distrattamente un numero di Famiglia Cristiana. Le aveva telefonato l’infermiera Micaela dicendole di correre subito in casa di riposo. Ansimava come avesse appena fatto le scale: “tuo marito è grave, Elsa, vieni appena puoi”. Indossò frettolosamente una gonna e una camicia non ancora stirata e si assicurò che nella macchina ci fosse abbastanza benzina per arrivare all’istituto. Ora invece la facevano attendere. L’assistente sociale l’aveva bloccata all’ingresso: “aspetti un attimo, signora Elsa, chiamo subito il medico”. Quel mattino aveva fatto un passaggio veloce in casa di riposo verso l’ora di colazione. Doveva ritirare un piumone in lavanderia, ma trovò il tempo per andare a trovare il marito. Il mercoledì il programma settimanale prevedeva la ginnastica di gruppo: i vecchi si lanciavano la palla al ritmo di musica, chiamando il loro nome. Si trattava di uno spettacolo grottesco e piacevole allo stesso tempo: le loro risate bambinesche imbarazzavano e rallegravano i cuori. Non è vero che invecchiando si diventa bambini, semplicemente si annullano le facoltà della mente e del pudore e inizi a vivere come ti pare. Sarebbe più bello fare ciò che ti pare a trent’anni o a quaranta, quando l’energia ti è ancora alleata, ma non lo si fa. Si aspetta l’ultima chance, il canto del cigno, per esprimere la propria natura.
Era l’ora del cambio turno. Le ragazze del mattino uscivano dagli spogliatoi profumate, con i capelli sciolti. In divisa sembravano tutte più vecchie. Si sentivano le loro risate, il tintinnare dei soldi alla macchinetta del caffè, il bip del marca presenze che, come i tre fischi dell’arbitro, decretava la fine di una giornata di lavoro. Quando la videro con il giornale in mano, lei sorrise come era solita fare. Queste donne accudivano un centinaio di vecchi. Li pulivano, li imboccavano, avevano una parola gentile per ognuno di loro. E per farlo a volte erano costrette a lasciare i figli alle baby sitter, a mangiare una scatoletta di tonno perché non c’era tempo per preparare nulla, a lasciare la casa sottosopra mentre gli armadi dei vecchi dovevano essere sempre perfetti: se un calzino finiva distrattamente nel cassetto del compagno di stanza, erano guai. Eppure appena la videro calò il silenzio. La salutarono a malapena e fuggirono via svelte, guardando il pavimento come camminassero nel buio. Ma perché? Suo marito era ricoverato lì da un anno; lei aveva condiviso con loro ogni dubbio, ogni pianto. Portava panettoni e spumante a Natale, si ricordava dei compleanni. Quando andava al mercato arrivava sempre con le brioche e un mazzo di fiori da mettere in guardiola. Sarebbero morti nel giro di pochi giorni, a causa delle temperature tropicali del reparto, ma non era importante. Ora che si trovava ad affrontare un momento così tragico (non glielo avevano detto, ma sapeva che Romeo era spirato) non la badavano nemmeno. Aveva fatto qualcosa di sbagliato?
Un anno prima l’ictus aveva reso Romeo ingestibile. Mangiava pochissimo, si muoveva a malapena, le uniche parole che gli uscivano erano insulti e bestemmie, se non grida di dolore inconsolabili. Negli ultimi tempi chiamava sua madre con una forza che spezzava il cuore. Stava morendo da vivo, prigioniero di un corpo ormai estraneo. L’uomo che aveva accarezzato, instancabile volontario in parrocchia, padre devoto, era un cumulo di ossa stanche. Il viso di cui conosceva ogni singola espressione sembrava un letto sfatto. La pelle prendeva sempre più il colore delle giornate grigie, quando butta pioggia fino a sera. Ogni volta che lo guardava negli occhi vuoti come un tunnel sotterraneo, realizzava che siamo preda di una fisiologia matrigna, che appena può ci toglie quanto abbiamo conquistato con una vita sana e il progresso della medicina.
Nonostante non avesse mai preso in considerazione un ricovero in una struttura sanitaria, ad un certo punto non ebbe molta scelta. Si stava consumando pure lei. Di notte puntava la sveglia per cambiarlo e per metterlo sul fianco, poi supino, poi sul fianco di nuovo. Era una prassi necessaria per scongiurare l’insorgere di piaghe da decubito: il movimento stimolava la circolazione, cambiando il punto di pressione. Aveva la schiena a pezzi e il diabete di cui soffriva da anni di certo non la aiutava. Il pensiero di quell’operazione, unito alle urla lancinanti che partivano da quel corpo ridotto ad una voce inquieta, non la facevano dormire nemmeno quando poteva. I figli non avevano dubbi: la casa di riposo rimaneva l’unica soluzione possibile. Fu Cristina a convincerla. Una sera se la trovò a casa insieme a Stefano. Spense la tv, accompagnò suo padre in camera da letto, mentre protestava chiamandola “stronza”, e disse che se sarebbe andata dall’assistente sociale a chiedere di “mettere dentro suo padre”. “Metterlo dentro” era un’espressione violentissima che però ben rendeva l’idea dell’azione. Contro il suo parere – anzi, senza chiederglielo nemmeno – avrebbero prelevato il vecchio malato e una valigia per portarlo in un posto dal quale sarebbe uscito in una bara. Una sorta di Purgatorio in terra, dove i tuoi peccati diventano righe scritte in una cartella socio-sanitaria, alla mercé di donne sconosciute che conoscono più il tuo culo che la tua anima. Era un pensiero spaventoso. Ed Elsa lo formulava ora, mentre attendeva seduta sul divanetto, con il profumatore automatico che ad intervallo spruzzava una fragranza talcata. Da pochi minuti era entrato il “nuovo ingresso”. Magari, pensò, avevano già occupato il letto di suo marito. Il “nuovo ingresso” era un vecchietto ancora abbastanza lucido che camminava con il girello. La nipote aveva chiamato la ragazza alla reception e le aveva lasciato un sacchetto della Coop con dentro qualche maglietta, qualche pantalone, il suo rasoio elettrico, la foto della moglie e due o tre paia di mutande. “Domani portiamo il resto, se ci dite cosa serve”, disse la ragazza, “comunque qua c’è tutto il necessario”. La sua vita era in un sacchetto, le cose davvero indispensabili occupavano pochi centimetri quadrati. I vecchi della casa di riposo erano persone che avevano sgobbato per anni per costruire una casa per loro e per i figli. Avevano combattuto per riuscire a godere di una buona reputazione, ed essa comprendeva anche “le cose”, “la roba”, quelle ricchezze misere che ora non servivano più. Qualcuno avrebbe deciso le loro sorti, non erano padroni nemmeno del loro tempo. Sarebbero entrati in un posto in cui altri decidevano cosa avrebbero mangiato, quando avrebbero dormito ed evacuato. Se ci si metteva a pensare a quanto poco era servita quella lotta forsennata per aver un posto al sole o almeno un minimo di rispettabilità, si veniva colti da una sorta di vertigine. Era meglio accantonare riflessioni di questo tipo, stiparle nelle soffitte e lasciarle lì come gli alberelli di Natale ad agosto, con i rami legati da un nastrino.
Anche lei aveva fatto così il giorno in cui preparò, per l’ultima volta, la valigia di Romeo. Andò a comprare magliette e mutande nuove al mercato, le mise nel borsone ancora impacchettate, in modo che le ragazze sapessero quanto ci teneva a lui, che non l’avrebbe mai mandato via con della biancheria sgualcita e ingiallita. In quei giorni era presa da mille pratiche preoccupazioni: la documentazione sanitaria da fotocopiare e raccogliere, riponendola in buste di plastica; poi i vestiti e qualche ricordo da lasciare sul comodino (l’assistente sociale le aveva detto che si poteva portare). La parte più difficile arrivò quando aprì lo stipetto degli omogeneizzati. Suo marito da un anno si nutriva di pappette e acqua addensata, un budino senza odore né sapore, che lui sputava sul bavaglio. L’aveva nutrito come un bambino, attenta alla temperatura, al grado di sale. Frullava gli arrosti, le verdure, la pastasciutta. Comprava qualche omogeneizzato quando il peso calava, per esser certa di avergli dato i principi nutritivi necessari. Versava tutto su un piatto termico e iniziava l’odissea dell’imbocco. Aveva appreso tutte le tecniche per riuscire a farlo mangiare: mantenere un ambiente tranquillo e privo di stimoli (niente tv, telefoni in silenzioso), sedersi di fianco a lui, invitarlo a mangiare da solo quando le sue condizioni lo permettevano, mettere sul cucchiaio una puntina di zucchero se rifiutava il cibo, o intervallare i bocconi con un pezzetto di banana schiacciata. L’uomo che per anni si era vantato di mangiare le costate più alte del pianeta, ora piangeva quando gli infilavi in bocca la poltiglia incolore che, per quanto la insaporivi, non sapeva di nulla. Era come dar da mangiare ad un bambino sdentato di ottant’anni. Il giorno in cui lo ricoverò e aprì lo stipetto degli omogeneizzati che a casa non sarebbero più serviti, si mise a sedere per terra e pianse. Le si smagliarono le calze e il trucco le macchiò il colletto. La vita è troppo dura anche per chi sa di non aver colpe.
In casa di riposo Romeo mangiava in maniera abbastanza regolare. Il calo di peso era fisiologico ed entrava nei range previsti dalla patologia di cui soffriva. Spesso andava lei a darle da mangiare. Le ragazze tenevano il cibo in caldo se ritardava. Arrivava nella sala da pranzo e si sedeva accanto a lui. L’avevano lasciato su un tavolo da solo perché spesso bestemmiava e sputava spaventando i vicini. Una volta una delle operatrici le aveva detto che la sua presenza lo rendeva ancora più nervoso. Gliel’aveva detto cordialmente, quasi con un sorriso sulle labbra. Era la moglie, lei. Cosa voleva dire che lo rendeva più nervoso? Non c’era altro modo di riferirglielo, se non sorridendo con inopportuna ironia? Elsa le rispose che forse il nervosismo era dato dal livello di follia di quella sala da pranzo. In quaranta metri quadri mangiavano trenta vecchi, e dovevano finire il pasto in mezz’ora. Il tutto avveniva in una confusione insopportabile. C’erano anziani che si alzavano continuamente dalla sedia, altri che tentavano di saltellare sulla carrozzina chiedendo di essere accompagnati al bagno (compito impossibile da svolgere in quel momento), vecchi a cui era destinato il cibo frullato invidiosi della coscia di pollo del vicino. Romeo era stata confinato anche per questo: gradiva la compagnia di persone ancora lucide e, pur non partecipando attivamente alle conservazioni, sembrava seguire i loro discorsi. Gli occhi di tunnel vuoto acquisivano vita quando stava in mezzo a chi poteva ancora condurre il proprio cervello in discussioni sensate. Ma erano persone in grado di fagocitare lasagne e patate arrosto, e lui non lo sopportava. Avventava la mano sana sul loro piatto, rubando tutto. Se metteva in bocca qualcosa di solido rischiava la vita. “Poi finiamo noi nei guai” le aveva detto il medico per convincerla a lasciarlo su un tavolo solitario come un cane rabbioso. Risultava difficile accettare il ricatto morale di una presunta galera. Ogni volta che il medico proponeva una soluzione drastica – fosse per le piccole incombenze come il posto a tavola o per la prescrizione di una terapia, per una cintura contenitiva – il discorso era sempre lo stesso: “ci pesa farlo ma non possiamo rischiare di finire in galera”. Aveva affidato una delle persone più care al mondo alle loro cure. Chiedeva sempre se il vestito portato era adeguato, se il biscotto non era pericoloso, se l’aria frizzante del mattino gli poteva arrecare problemi alla gola, eternamente gorgogliante dopo l’ictus. Eppure sembrava che il ragionamento dei sanitari fosse sempre volto a pararsi il culo il più possibile. Anzi, non è che sembrava, te lo dicevano in faccia. Come avrebbe potuto denunciarli pure se le prescrizioni, per motivi casuali, avessero creato dei problemi alla salute di Romeo? Il destino di quell’uomo era già scritto, pure se gli avessero accorciato la vita rendendola però più dignitosa e piacevole, andava bene lo stesso. Ma non c’era verso, e lei in fondo lo capiva. Non sai mai chi hai davanti. Una persona apparentemente accomodante domani può diventare una iena, se gli tocchi l’orgoglio e i soldi in banca. Glielo aveva detto Micaela, mentre trascinava il carrello delle terapie. Guardandola con un occhio nascosto dal palo delle flebo le sussurrò: “non sai Elsa cosa fanno i parenti per i soldi. Minacciano di denunciarci in continuazione, ogni tanto qualcuno vince la causa. La morte pare un evento improvviso e catastrofico pure se hai novantanni e un piede nella fossa”. Poi si era scusata per la brutalità dell’espressione, anche se era impossibile darle torto.
Forse era per questo che le ragazze non l’avevano nemmeno salutata quel giorno. Romeo se n’era andato in circostanze non chiare, e ora sistemavano la cartella clinica e si accordavano sulla versione da dare. L’aveva capito tempo addietro, una volta in cui lo mandarono al pronto soccorso in forte stato di disidratazione: quando succedeva qualcosa di colposo, raccontavano tutti la stessa cosa, con identiche parole, come fosse un copione di teatro. Poi la verità la veniva a sapere comunque da qualche anziana arzilla, solitamente sorda ma perfettamente udente quando giravano voci interessanti e tra il personale aleggiava il panico. Quando Romeo tornò dall’ospedale, infatti, le si avvicinò Adelina, chiusa nella sua mantellina rosa nonostante fosse il dieci agosto. La portò nella sua camera con la scusa di farle vedere un’orchidea azzurra. Camminava a spingendo la sua carrozzina, percorrendo il corridoio con passi ondeggianti come quelli dei marinai sulle navi. “Maledetta anca arrugginita”, biascicava in una smorfia di dolore. Entrando nella camera chiuse la porta e raccontò quanto udito in consegna il giorno del ricovero. “La consegna” era il momento in cui le ragazze del turno del mattino passavano le informazioni a quelle del pomeriggio. Avveniva alle ore 14.00 presso la guardiola. Anche se era presente qualche vecchio, nessuno ci faceva caso. Adelina non mancava mai, diceva di non aver voglia di riposare dopo pranzo, tanto alle 19.30 mettevano tutti a letto ed era dura star fermi e zitti fino al mattino dopo. Quel giorno stava facendo a maglia sulla poltroncina di fianco alla scrivania e sentì Micaela dire alla collega che Romeo era stato ricoverato in stato di disidratazione perché le ragazze non gli avevano dato da bere. Da lì si scatenò l’inferno: una ragazza in quel momento assente venne accusata di barare la registrazione delle idratazioni, confermando di avergli dato da bere l’acqua addensata quando in realtà la buttava giù per il cesso. Micaela gridava che queste cose si dovevano riportare subito in direzione, che era tutta una mafia, tutte si coprivano per pararsi il culo a vicenda. Le urla arrivarono in tutte le camere, qualche anziana uscì a piedi scalzi e i capelli scomposti chiedendo cosa stesse succedendo. Dalle preoccupazioni sanitarie si passò ben presto alle accuse personali: la coalizione di Micaela sosteneva l’esistenza di un gruppetto di capette che facevano di tutto per lavorare meno, lasciando i vecchi poco curati e maleodoranti. Avevano fretta di finire presto per poi starsene a chiacchierare davanti alle macchinette o a fumare in giardino. Il resto delle dipendenti doveva sobbarcarsi anche le loro mansioni e ormai erano stufe di questa storia. E poi le capette chiedevano dei cambi turni per andare insieme a ballare o fare aperitivo, postando foto su Facebook per far rabbia alle altre. Micaela ne avrebbe parlato con il direttore e se lui non faceva nulla, avrebbe chiamato i sindacati. Adelina aveva assistito a tutta la scena, con la testa china sui punti a goccia della sua nuova maglia, facendo finta di non capire nulla.
Del resto, pensava Elsa, come potevano quattro persone star dietro ai vecchi quando lei aveva faticato a tenerne in vita uno? Le ragazze facevano un lavoro difficilissimo, che esigeva concentrazione, conoscenze tecniche e un buon intuito clinico. Eppure erano pagate male e considerate peggio. I familiari le chiamavano “inservienti”, in tono sprezzante. Le trattavano bene per scongiurare lo spauracchio di una tacita vendetta sui loro cari nel momento in cui non si fossero sentite abbastanza stimate. Era un attimo provocarle inducendole a venir meno al loro dovere, condannando definitivamente la vita dei vecchi, già al gradino più basso nella scala della dignità. In realtà era un pensiero che non valeva per tutti: Elsa aveva sempre avvertito rispetto nei suoi confronti e non aveva dubbi sulla qualità delle cure riservate al marito, non avrebbe mai ipotizzato reazioni simili. Provava una certa vergogna quando gli anziani trattavano male le ragazze, rovesciando i piatti della minestra insipida e chiamandole puttane. Erano malati, certo, ma la scusa non reggeva per tutti. A volte pensava che anche se avessero negato loro un accompagnamento al bagno o un bicchiere di vino in più, avrebbero avuto le loro buone ragioni. Nella classifica dei vecchi cattivi, Romeo era di certo sul podio. L’immagine dei nonnini deboli e affettuosi era pura retorica. E la retorica è come lo zucchero filato: ti riempi la bocca di una nuvola bianca e dopo pochi secondi rimane solo uno sputo dolcissimo. Spesso l’età non porta nient’altro che l’età. Il tempo non dona saggezza alle anime buie, e anche se ci ostiniamo ad amarle, se riserviamo loro ancora più attenzioni quando si indeboliscono, esse non smettono di farci del male. I cattivi non provano rimorsi né vergogna, e se non riescono più a colpirti con la forza, lo fanno con la pena. Il senso di colpa è per loro come la tela di Penelope: per non farlo finire mai, lo tessono durante il giorno, poi di notte lo distruggono e ricominciano il mattino seguente. Spesso, nel linguaggio scellerato e reso difficoltoso dalla paralisi, suo marito la rimproverava per averlo “messo dentro”: le urlava di non farsi più vedere e poi la implorava di portarlo a casa. Lei reagiva con il silenzio, l’unica forma di lotta che conosceva. “In questi frangenti è la malattia che parla”, le diceva la psicologa. Poi una volta che si era sfogato, riusciva a chiederle scusa e piangeva a dirotto ed era in quel momento che lei si sentiva annientata, perché forse a casa lo poteva tenere o almeno avrebbe dovuto coinvolgerlo in una delle decisioni più difficili della loro vita. Il senso di colpa è la relazione più forte e duratura che si possa costruire tra esseri umani; è la sintesi perfetta dell’equilibrio: un palo forte che ne sostiene uno sghembo. Lei era il palo sghembo e Romeo uno stronzo, in fondo. La pietà provata il giorno in cui si era smagliata le calze buttandosi a terra davanti agli omogeneizzati era un sentimento assoluto che veniva da lontano. Era la compassione che si ha verso gli animali feriti, verso la vita fisica che non regge più il peso della sopravvivenza. Era la pena verso un corpo quasi spento, al di là di chi lo abita.
Prima che lui si addormentasse gli rivolgeva sempre l’ultima occhiata pensando a cosa avrebbe dovuto dire alle ragazze prima di andar via: quanto aveva mangiato, se aveva evacuato, se il giorno dopo era meglio rifargli la barba. A volte, mentre lo guardava, la coglieva una riflessione tetra, che scacciava via come una mosca cattiva. Si trattava della consapevolezza che quella fine forse la meritasse davvero. L’amore è capace di violenze inaudite e una delle più subdole è restare insieme, anche se l’unica cosa che unisce due anime è il senso del dovere. Siamo così inclini a far guidare la nostra esistenza dall’opinione altrui che ad un certo punto è come se mettessimo il pilota automatico e gli facessimo decidere la strada senza chiederci più nulla. Ogni tanto le sembrava di esser stata catapultata lì da un altro pianeta, come se in quel momento della sua storia ci fosse arrivata per caso. Anche ora era così. Seduta sul divanetto mentre sfogliava un giornale che non leggeva, si guardava vivere da lontano e il pensiero le dava le vertigini. Quali bivi aveva preso per arrivare fin lì? Che le era successo? Era in attesa di un dottore che le avrebbe annunciato la morte del marito, un uomo per lei quasi estraneo ormai. Perché aveva scelto lui? Quando aveva deciso di tenerlo comunque, nonostante la vergogna provocata dai suoi vizi e il sottile disprezzo che le aveva fatto alzare i livelli di cortisolo e di glicemia? C’era rimasta assieme per salvaguardare l’opinione che gli altri avevano di lei? Ma se alla prima difficoltà l’aveva sbattuto in un istituto, le importava davvero ciò che pensavano gli altri? Quello che aveva fatto le pareva ora l’unica cosa sensata. In questa guerriglia di pensieri, sentì una mano appoggiarsi sulla sua spalla. Era quella di Micaela, la riconosceva per l’odore di antisettico che era solita strofinarsi appena si toglieva i guanti. “Seguimi Elsa, il dottore ti deve parlare”. Lo raggiunsero nell’ambulatorio, scavalcando alcune carrozzine parcheggiate. Il medico le chiese se aveva compreso che Romeo non c’era più. Lei annuì senza e abbassò la testa, guardandosi l’orlo stropicciato della gonna. Avevano chiamato il 118 quando le condizioni erano ormai disperate. Una delle ragazze era andata a prenderlo per portarlo a fare ginnastica e l’aveva trovato in stato comatoso, con il viso blu e gli occhi assenti. Micaela aveva allertato il 118. Lo avevano prelevato a sirene spiegate e poi portato in pronto soccorso. Quando arrivò, la glicemia era a terra. Avevano tentato di idratarlo per riassestare i valori, ma ormai era troppo tardi. Micaela stringeva nelle mani tremanti lo schema glicemico della giornata: era sicura di aver fatto le dosi prescritte ai pazienti corretti. Non poteva essersi sbagliata, Micaela. Elsa lo sapeva quanto era brava e accorta. Anche quando non era in turno poteva chiamarla per un consiglio, un consulto, anche solo per sfogarsi. Il medico continuava a schiarirsi la voce. Se Elsa aveva domande le avrebbe potute fare. Se ora era troppo scioccata, poteva tornare domani, nessun problema.
Sapendo di avere tutta l’attenzione su di sé e toccando in maniera quasi sensuale la loro paura, si alzò stirando la gonna con le mani. Li guardò. “So con quanto amore avete curato il mio Romeo. Scusate…” e si asciugò il viso con un fazzoletto. “Di certo c’è stata una negligenza da parte vostra. A volte il personale è carente. Alcune dipendenti sono frettolose e impreparate. Ma hanno una famiglia pure loro. Probabilmente arrivano al lavoro piene di pensieri, di dubbi. Non è mia intenzione, mettervi nei guai, se è questo che mi state chiedendo. Ecco perché – riprese dopo una pausa, con le lacrime di rimmel che scendevano fino alle labbra – le ragazze prima non mi hanno nemmeno salutato. Mi dispiace molto. Mi conoscete, sapete che vi ho sempre portati su un palmo di mano. Spero lo capiate e mi stiate vicine in momento così difficile. So che non aveva molto tempo ancora…ma avrei voluto dirgli addio”. Micaela le toccò di nuovo la spalla. L’odore di antisettico era evaporato. Le concesse un freddo abbraccio, prese la borsa e se ne andò. Camminando per il corridoio sentì gli sguardi delle ragazze appoggiarsi sulla sua nuca come avvoltoi. Adelina, col suo passo lento di marinaio tentò di raggiungerla, per darle chissà quale strana versione dell’accaduto. Sembrava la strega delle fiabe, chiusa nella mantellina in cui nascondeva i frutti velenosi della sua solitudine. La casa di riposo sembrava ora una foresta oscura, densa di intrighi e segreti, in cui si camminava tra sterpaglie di rancori. L’eco dei tacchi sulle scale lasciò spazio al canto dei passeri. Era finalmente uscita. Lì dentro non ci avrebbe più messo piede. Si voltò per un solo attimo, scacciando corvi immaginari dalla scapola. Con un movimento silenzioso toccò la siringa di insulina lasciata nella tasca esterna della borsetta. L’avrebbe smaltita nel cestino della piazza, dopo aver bevuto un caffè sotto il cielo azzurro mare.
Federica Marangon